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Goodyear: «Rendere possibile l’impossibile

In azienda come nella vita, è l’obiettivo di Luca Crepaccioli, presidente e a.d. per Italia & Grecia. Come? «Volere è potere» sostiene il manager, convinto che siano le persone a fare la differenza. E i risultati del gruppo sembrano dargli ragione

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Quante volte dal 2008 a oggi avete sentito ripetere la frase «nulla sarà più come prima»? Tante, vero? Certamente perché gli equilibri economici che prevarranno dopo questa crisi apocalittica saranno profondamente diversi ri­spetto a quelli vigenti allora. Ma anche, e forse soprattutto, perché nel frat­tempo si sono evoluti i parametri di gestione delle aziende. E per renderse­ne conto basta partecipare, come è capitato alla sottoscritta, a un incontro organizzato a Milano da The Ruling Companies Association, durante il qua­le oltre al raffronto tra l’approccio d’impresa in Italia, Usa e Germania, uno tra i sei prestigiosi relatori ha preso a parlare a una nutrita platea di manager di “ultimo miglio della managerialità”, “consapevolezza della leadership”, “esercizio del no positivo”, nonché dell’“importanza del saper scegliere” o della necessità di dover “fare meno con meno, ma meglio”. Di cosa si trat­ta? Dell’approccio d’impresa made in Goodyear Dunlop Tires, e a raccontar­lo era il suo presidente nonché amministratore delegato Luca Creapaccioli. Dal 2009 ai vertici dei mercati Italia & Grecia della multinazionale di pneu­matici a stelle e strisce, il manager romano ha ricoperto negli anni immedia­tamente precedenti il ruolo di Chief Financial Officer in Germania, mentre vanta esperienze come Finance Director Emea & Asia in Raytheon (presso l’headquarter di Francoforte), in Telecom Italia Mobile e PwC (Roma e Lon­dra). Un background variegato che oggi gli consente di dire: «Se le azien­de vogliono prosperare, i manager devono innanzitutto prendersi cura di se stessi e delle persone che lavorano insieme a loro». Come? Business People è andato a trovarlo nella sede di MilanoFiori (Assago) per farselo raccontare.

Crepaccioli, i risultati economici ufficializzati di recente da Goodyear sono molto buoni. Quali le ragioni di una performance in controtendenza rispet­to all’economia internazionale? In effetti abbiamo annunciato il miglior trimestre di sempre della storia di Goodyear. Le ragioni sono molteplici, principalmente la capacità di sod­disfare le mutevoli esigenze dei nostri clienti e la capacità di fare le scel­te giuste. Siamo andati molto bene in Usa e Asia, mentre in Europa – Italia compresa – stiamo facendo un grande recupero.

Il tutto è coinciso con il lancio di una linea di prodotto in particolare, op­pure con cambiamenti di strategia nella distribuzione o nella promozione? Direi che si è trattato della combinazione di diversi fattori. Negli ultimi tre anni abbiamo rinnovato in toto la linea di prodotti, oggi qualitativamente seconda a nessuno. Quello con l’innovazione è un rapporto che ha sem­pre caratterizzato Goodyear, dalla scoperta della vulcanizzazione del­la gomma al primo pneumatico che ha toccato il suolo lunare, fino ad ar­rivare al RunOnFlat che consente all’automobilista di percorrere 80 km in caso di foratura, e al prodotto adatto a tutte le stagioni; infine, da un’idea di un ingegnere italiano, cosa di cui vado particolarmente orgoglioso, stia­mo lavorando a uno pneumatico che si gonfia da solo mantenendo auto­nomamente la pressione. Il tutto nell’ottica di un’innovazione che non sia mai fine a se stessa, ma funzionale alle esigenze del consumatore finale, da cui non può essere disgiunta una costante attenzione alla sicurezza, ar­gomento del quale, secondo me, non si parla mai a sufficienza.

LE RISORSE VANNO VALORIZZATE PER QUELLE CHE SONO E NON PER QUELLO CHE VORREMMO CHE FOSSERO

Ovvero?Vede, ormai tutti i pneumatici delle marche più note hanno raggiunto un buon livello qualitativo. Nel nostro caso però ci distinguiamo per esserci concentra­ti sul conciliare un’ottima prestazione dal punto di vista sia della frenata sul ba­gnato che del consumo di carburante. Perché non tutti sanno che il 20% del consumo dell’auto è dovuto alla resistenza al rotolamento dei pneumatici sul­la strada, ed è un dato di fatto che la mescola utilizzata per diminuirla ha ca­ratteristiche esattamente opposte a quelle che garantiscono sicurezza in frena­ta. Ecco, noi su entrambi i fronti non abbiamo voluto accettare compromessi. Si tratta di un dato ormai sotto gli occhi di tutti, visto che gli pneumatici riportano un’etichetta colorata, simile a quella relativa all’efficienza energetica degli elet­trodomestici, che va da A a G, dove alla prima classe appartengono i prodotti che consentono minor consumo di carburante così come quelli che permettono una frenata più breve, e G quelli in fondo alla scala. Ebbene, Goodyear vanta la più alta percentuale di prodotti che combinano le classificazioni A e B.

Questa sorta di vocazione all’innovazione che vi siete dati, come si sposa con i discorsi che le ho sentito fare a un recente incontro di The Ruling Compa­nies Association durante il quale, a una platea di manager, ha parlato di “eserci­zio del no positivo”, dello “star bene e far stare bene in azienda”, di “capacità nel far accadere le cose”, nonché di “valorizzazione delle risorse per quello che sono e non per quello che vorremmo che fossero”? Si sposa nella misura in cui Goodyear incarna in tutto e per tutto la vera cultu­ra delle migliori multinazionali Usa, all’interno delle quali le persone che ci la­vorano sono al centro. Poi noi a livello locale “ci mettiamo del nostro”, convinti come siamo che alla fine siano sempre le persone a fare la vera differenza.

È questo a esservi valsa l’assegnazione di un riconoscimento come il Top Em­ployers Europa e Italia 2014? Effettivamente abbiamo messo insieme tutta una serie di attività che vanno dal coaching al networking, passando attraverso programmi di sviluppo e di co­municazione fino a eventi in grado di ottimizzare l’armonizzazione e l’inte­grazione aziendale. Perché l’azienda è fatta di persone e le persone lavora­no insieme ad altre; quindi, il vero valore di un responsabile di funzione o di reparto sta nel capire cosa il singolo è in grado di fare, e – di conseguenza – nell’affidargli il ruolo più adatto alle sue capacità. Basta saper fare le doman­de giuste e aver voglia di ascoltare.

Mi viene da pensare che a questo punto un manager debba essere anche un po’ psicologo, o quanto meno vantare una naturale predisposizione empatica nei confronti di chi lavora insieme a lui. Lo so, sembra un passaggio di mentalità complicato, ma nella sostanza non lo è. In passato si lavorava per funzioni, oggi lavoriamo per processi, che ad esempio per noi vanno dall’acquisto della materia prima fino alla vendita al cliente finale, durante i quali le diverse funzioni interagiscono tra loro. Pertan­to, è il processo che guida all’interno delle organizzazioni, come le multina­zionali; da ciò ne consegue che conta non tanto cosa si fa, ma come lo si fa. Come dicevo in azienda “sono le persone a fare la differenza”, se ciò è vero non vedo perché buona parte delle attività e delle attenzioni del management non debba essere rivolta alle persone, facendole diventare una priorità all’in­terno delle attività quotidiane.

Lei conosce personalmente tutti i suoi 200 dipendenti?Certo. Chiaramente non riesco a parlare con ciascuno di loro tutti i mesi, ma re­golarmente trascorro del tempo con quelli che lavorano in trasferta, andiamo a pranzo insieme e non si parla solo di pneumatici, ma di chi sono e cosa fanno. Si tratta di un approccio incoraggiato a tutti i livelli. Ovvio, non riusciamo a es­sere sempre puntuali, però è importante che l’attenzione sia genuina e non co­struita, per far sentire le persone realmente ascoltate.

Oltre alla gestione del singolo, nell’ottica di processo alla quale lei accennava prima, anche la logica del team ha una forte rilevanza. Indubbiamente. Soprattutto perché gestire bene un team è una delle cose più complicate in assoluto. E lo si può fare creandone uno a propria immagine e somiglianza (che è la via più facile) oppure – ed è l’opzione che preferisco – si può formare un team il più eterogeneo possibile. Cosa che richiede un’atten­zione esponenziale, ma allo stesso tempo genera altrettanta ricchezza, perché – in base alla mia esperienza – le decisioni migliori sono quelle su cui non tutti sono d’accordo. Attenzione, però, l’eterogeneità a cui mi riferisco è relativa alla cultura e al background dei singoli non ai valori, che devono in­vece essere condivisi. E poi non basta mettere insieme le persone, ma occorre lavorare e costruire insieme ogni giorno.

Quando parla di valori a cosa si riferisce? Al fatto che si abbia in comune l’idea di non mettere se stes­si al centro, bensì il gruppo. Cosa non facile, perché tenden­zialmente siamo tutti portati a voler dimostrare di saper risolvere i proble­mi meglio degli altri.

LA VERA SFIDA È FARE MENO CON MENO,MA FARLO MEGLIO, GENERANDOUN RISULTATO SUPERIORE

Sarei curiosa di assistere ai vostri colloqui di selezione del personale… In effetti, alcuni restano sorpresi per il nostro approccio, ma se si vogliono at­trarre le persone migliori bisogna pur correre qualche rischio.

È soddisfatto per quanto fatto in cinque anni di gestione? Diciamo che ho cominciato a sorridere molto di più negli ultimi due anni. An­ch’io ho fatto diversi errori, e continuo a farli. Come dire? Ho maturato grande esperienza… (ride). Un’altra cosa su cui mi sono concentrato è far raggiunge­re all’organizzazione aziendale una massa critica ottimale dal punto di vista del talento: non basta ingaggiare quattro/sei/dieci talenti, la macchina procede più speditamente quando il talento raggiunge una massa critica tale da essere con­tagiosa. In questi anni c’è stato un avvicendamento di più del 50% dei dipen­denti e il quasi totale ricambio del team manageriale.

So che dietro a questo approccio c’è anche il concetto di Row, ovvero Return on work. Può spiegarmi in cosa consiste? Tutto nasce dalla riflessione che lavorare di più non porta necessariamente a ri­sultati migliori, nonché dal fatto che spesso mi sentivo dire, e ripetevo anch’io, di non avere il tempo necessario per fare tutte le cose che andavano fatte. Alla fine, ragionando, ci si rende conto che quotidianamente si svolgono tutta una serie di attività non essenziali. Si fa un gran parlare di Return on investment, non tenendo conto di tutti gli effetti del nostro investimento più prezioso: il tem­po. E stiamo parlando di un bene non in commercio e che non è possibile rige­nerare. Ecco perché vale la pena dedicare maggiore attenzione a come spen­diamo quotidianamente questa preziosa materia prima. Così ho coniato il Re­turn on work, pensando a come sia possibile accrescerlo eliminando le attività di contorno che assorbono tempo ed energie. Dopodiché, sorprendentemente, scopriremo di avere molto più tempo da dedicare alle attività importanti. Quan­te volte torniamo a casa la sera chiedendoci “cosa ho fatto oggi?”, e avendo la sensazione di non aver fatto nulla? Il tutto si collega in qualche modo anche alla situazione che viviamo a livello Italia, dove c’è stato un forte ridimensiona­mento di tutto (consumi, prezzi, budget e via dicendo) nonché delle risorse a nostra disposizione. Se, quindi, in un contesto di forte abbattimento delle risor­se si pretende di fare le stesse cose, anzi addirittura di più, il risultato che si ottiene è solo una grande frustrazione e il non raggiungimento degli obiettivi. Allora, l’unica cosa da fare è cambiare il proprio punto di vista, certi che “fare meno con meno, generando un risultato superiore”, è possibile.

In che modo? È normale che chi gestisce un business o è imprenditore, abbia come obiettivo principale di aumentarne il valore, ma per riuscirci non neces­sariamente bisogna fare di più. Data l’attuale congiuntura, la vera sfida è, come dicevo, fare meno con meno, ma farlo meglio in modo da ge­nerare risultati in crescita e più stabili. Insomma, se le risorse sono infe­riori bisogna fare meglio quello che conta, il resto – ciò che noi in azien­da definiamo “attività di contorno” – va fatto dopo, e con le risorse ri­manenti. Come dire? La vera differenza la faranno le scelte e l’execution delle priorità, anche se c’è sempre il rischio che si moltiplichino.

Come evitarlo? Basta saper dire di no. Darsi una strategia significa saper scegliere quello che alla fine sarà veramente importante, e non c’è cosa più difficile che saper dire di no al momento giusto. Il che vale nella vita in generale come in azienda, nelle piccole come nelle grandi realtà. E poi nel lavorare sulla priorità noi cer­chiamo sempre di essere “semplicemente” speciali. Questo non solo su cosa facciamo ma soprattutto sul come. Perché oggi l’essere speciali è la nuova normalità, essere semplicemente bravi non basta: occorre essere anche curio­si, competitivi, esercitare il dubbio, saper chiedere aiuto e ascoltare. Capisco che a qualcuno possano sembrare concetti astratti, ma bisogna essere capaci di desiderare molto intensamente per far diventare possibile l’impossibile.

Qualcuno la chiama “immaginazione creativa”. Ma si tratta di una sua skill personale o di un approccio standard della Goodyear? Rientra in una precisa strategy di Goodyear, che ha dettato delle linee guida per tutto il decennio – accolte e condivise dall’intero management internazio­nale – nonché ragione non secondaria dei risultati molto positivi che l’azienda sta raccogliendo. Le divisioni locali sono però libere di scegliersi le persone con cui raggiungere gli obiettivi dati e di implementare come meglio credono la strategia globale in funzione delle necessità dei rispettivi mercati.

Arianna Huffington, fondatrice e presidente dell’Huffington Post Media Group, ha di recente dichiarato che «l’attuale modello di successo, che si identifica con superlavoro, esaurimento da stress, mancanza di son­no, lontananza dalla famiglia, connessione 24 ore su 24, non funzio­na. Non funziona per le aziende, né per le società in cui è il model­lo dominante, né per il pianeta». E ha aggiunto: «Sempre più azien­de stanno realizzando che ciò che è meglio per noi come individui è altrettanto buono per gli affari, che la salute dei dipendenti e gli obiettivi dell’azienda sono inseparabili». Condivido appieno perché l’ho provato sulla mia pelle. Io do il meglio quando sono lucido, se non lo sono fatico di più e rendo di meno. Quindi, bisogna dormire, mangiare, stare bene ed essere in pace con se stessi, regalandosi del tempo per prendersi cura di sé. Maggiore è l’equilibrio più si è efficaci con gli altri. Lo stacanovista, il workaholic sono preistoria.

ESSERE BRAVI NON BASTA: OCCORRE ESSERE CURIOSI, COMPETITIVI, SAPER CHIEDERE AIUTO E ASCOLTARE

Sulla carta il ragionamento non fa una piega, ma come conciliare tutto questo con un quadro generale di aziende in crisi che si ritrovano con or­ganici decurtati e la stessa mole di lavoro?Noi non ne siamo esenti: negli ultimi 18 mesi abbiamo fatto due operazioni di ristrutturazione. Un passaggio doloroso, perché dover dire a delle perso­ne che devono lasciare il lavoro rappresenta per me un fallimento persona­le. Non per questo dobbiamo stare con le mani in mano: non possiamo esi­merci dal decidere cosa è importante per l’azienda e per il gruppo, metten­do però nelle condizioni migliori le persone, che purtroppo non hanno più spazio nell’organizzazione, per vivere più serenamente questo passaggio. Per quanto brutale, è una legge del mercato che vale per tutti. La differenza sta nel come la si applica.

C’è chi sostiene però che se non veniamo spinti a fare sempre di più, non scopriremo mai i nostri veri limiti. Ma il voler essere speciali, quindi il voler fare maniacalmente al meglio quello che conta, spinge le persone oltre i propri limiti. Sia chiaro, in Goo­dyear si lavora molto, e non potrebbe essere diversamente: il nostro è un mercato molto competitivo. L’energia aggiuntiva la troviamo nelle motiva­zioni intrinseche che riusciamo a trovare in quello che facciamo. Perché la­vorare tanto sfinisce, lavorare tanto volendo metterci del proprio pure, ma gratifica. Bisogna solo capire quando è il momento di fermarsi.

E come si fa? Abbiamo lavorato molto sulla cultura dell’hot feedback, che può essere con­sonante o dissonante. Entrambi molto utili. Certo il dissonante risulta più dif­ficile da accettare, ma se con la pratica si riesce a non essere giudicanti, al­lora diventa un valore prezioso per chi lo dà e per chi lo riceve. In fondo quello che conta all’interno di un’azienda non è tanto quello che riteniamo di dare, ma quello che gli altri percepiscono.

All’incontro di The Ruling Companies Association le ho sen­tito affermare che «l’arte di far accadere le cose va conside­rata l’ultimo miglio della managerialità» e che tale esercizio è meno faticoso in Germania anziché in Italia. Quali sono le ragioni dell’impasse italiana? Se non vengono realizzate, le buone idee restano delle astra­zioni. In Italia abbiamo un grande senso critico che ci aiuta da sempre ad avere buone idee, ma è anche un nostro gran­de limite perché eccedere in questo esercizio ci rende indi­sciplinati. Mentre il far accadere le cose richiede disciplina, ovvero è necessario che anche dopo una discussione anima­ta – anzi, per me più è animata meglio è – si prenda una de­cisione e la si porti fino in fondo, anche da parte di chi non l’ha condivisa. Ma perché ciò accada tutti devono avere la salda convinzione di essere stati ascoltati e conoscere le ra­gioni per cui sia stata presa, eventualmente, una decisione diversa. Insomma, la discussione deve avere un inizio e una fine e condurre a conclusioni chiare, invece in Italia di soli­to si trascina all’infinito: tutto viene continuamente rimesso in gioco, provocando un enorme dispendio di energie e un intollerabile stato di incertezza. In Germania, dove ho avuto modo di lavorare per diversi anni, tutto questo non sarebbe possibile. Dopodiché serve un metodo nel portare avanti le cose. Nelle aziende si fa molta “strategy”, cioè si passa tanto tempo a parlare e a pensare (troppe riunioni!), e si è portati a dedicarsi poco all’“execution”, ritenendola una parte meno nobile. Non a caso il 70% delle buone idee fal­lisce. In Goodyear invece consideriamo l’esecuzione parte integrante della strategia, visto che alla fine quello che conta non è ciò che si pensa ma quan­to si realizza.

Durante l’ultimo World Economic Forum, sono stati organizzati 25 semina­ri sulla salute e il benessere dei manager. Si dice che uno dei segreti di Steve Jobs fosse la meditazione. Personalmente non l’ho mai praticata, ma sono attratto dalla mindfulness. Tutto va riportato all’assioma che per essere efficaci con gli altri bisogna esse­re in sintonia con se stessi. Ma quanto tempo e impegno siamo disposti a in­vestire per raggiungere tale obiettivo? Bisogna partire dalla consapevolezza che, finché anche la scelta della meditazione è imposta, molleremo. Quando invece raggiungeremo la piena consapevolezza che si tratta di una necessità e non di un tentativo come un altro (vedi dieta, palestra, etc.), allora scatterà qualcosa che non ci permetterà più di trascurare quanto va fatto.

Volere è potere, dunque. Ne sono assolutamente convinto. Ciò non significa che lo ritenga facile. Pen­siamo a Charles Goodyear, ciabattino di umile estrazione che ha scoperto la vulcanizzazione, ma non ha potuto beneficiarne in vita. Lo scorso Natale ho regalato ai miei colleghi un interessante libro di Alex Rovira, Fortunati si di­venta, in cui si racconta come tutti coloro che sono stati baciati da una fortu­na cieca, dopo un certo numero di anni, si sono ritrovati peggio di come sta­vano prima. Vedi i vincitori di certe lotterie milionarie. Ma l’autore parla an­che di “buona fortuna”, ed è quella che non arriva di colpo ma che ognuno di noi si costruisce giorno dopo giorno. Quindi, il nostro compito è creare le condizioni affinché essa arrivi e, quando lo fa, trattenerla.