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Intervista a Oscar Giannino: “Non è il momento di rassegnarsi”
Economia e cultura, fiducia e credibilità. Protesta, tanta protesta e forse un pizzico di romanticismo. Ecco la ricetta che sta facendo lievitare il progetto politico di “fermare il declino”
Oscar Giannino è sicuro soltanto di una cosa: che ci proverà. A incamerare l’enorme protesta che gli italiani esprimeranno al voto nella primavera 2013. A cambiare l’impostazione economica del nostro Paese. A riformare il sistema contributivo e previdenziale rivedendo i principi su cui si fondano i diritti dei lavoratori. In base all’efficienza, oltre che all’astratta intangibilità di un contratto nazionale. Entro dicembre ci sarà la convention con l’Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo per capire se il movimento fondato da un pugno di economisti che – nel momento in cui si scrive – ha già raccolto 25 mila adesioni, ha anche i numeri e la forza per trasformarsi in una vera proposta politica. Per adesso Giannino affila l’arma della dialettica (con l’elettorato, non con i «vecchi partiti»), alla ricerca di un paradosso: una comunicazione razionale che riesca a colpire la pancia della gente.
Lei ha deciso di scendere in campo in un momento in cui sembra non ci sia più terreno solido su cui puntellare una proposta politica. E infatti la sua è una proposta economica. Ma l’economia di un Paese può modificare la cultura di un Paese? C’è un intreccio profondo tra la cultura di un Paese e i suoi modelli economici. Secondo la scuola di Douglass North, lo sviluppo è caratterizzato dalla cosiddetta Path dependence. Ovvero un sentiero tracciato dalle caratteristiche culturali e dalla fisionomia della società sul quale interagiscono il settore pubblico e le regole dell’economia privata. E infatti, se ci pensa, gli italiani sono cambiati in presenza di accelerazioni e frenate dell’economia. E hanno mutato strutturalmente convinzioni di fondo, oltre che approccio culturale ed etico, abbassando il tasso della pratica religiosa nel quindicennio dal 1946 al 1960, in cui guarda caso c’è stato l’aumento del 550% del reddito disponibile. Il Paese, tardivamente e tumultuosamente, passava da un’economia di stampo agro-pastorale a una di tipo industriale.
A 50 anni di distanza la maturazione è compiuta? Parliamo sempre di processi aperti, e questo vale anche per il mercato: non sono solo regole, è un fenomeno di scoperta. E non esiste un depositario di scienza e coscienza superiore che sappia esattamente come funzionano tutte le relazioni tra le parti. Il vero problema in Italia è che negli ultimi 20 anni abbiamo avuto due grandi crisi: il crollo dell’efficienza economica e dell’etica nei partiti, e la fine di una stagione politica durata 18 anni che si è chiusa con l’evidenza di un sistema ladronesco. È la più grande discontinuità storica dal Secondo dopoguerra. Noi pensiamo sia arrivato il momento di proporre una modalità d’azione per fare insieme due cose, anzi tre: prendere atto della giusta diffidenza che all’estero hanno verso di noi per far scendere il debito pubblico, raddrizzare il declino della crescita potenziale e dare allo stesso tempo una risposta concreta ai milioni di italiani che sono fuori dall’economia produttiva. È possibile realizzare i primi due obiettivi solo se viene messo in conto anche il terzo.
“Fermare il declino” è senz’altro un obiettivo razionale, condivisibile, necessario. Ma non manca in questa prospettiva la componente aspirazionale, del sogno, fondamentale in qualsiasi proposizione? O siamo messi così male che oggi il sogno in Italia è “fermare il declino”? Al contrario. Proprio perché pensiamo che la cultura e l’economia siano intrecciati, riteniamo che riuscire a fare quelle tre cose insieme sarà impossibile se non alimentiamo nella pancia profonda del Paese una nuova visione, se non iniettiamo una capacità di fiducia in qualcosa che si può fare. Oggi gli italiani pensano che non si possa più fare. Ma per trasmettere fiducia nel futuro serve forza nel presente, e un enorme consenso. C’è bisogno di provarci, anche perché non credo affatto che gli italiani, antropologicamente, abbiano introiettato la mentalità di chi vive in un Paese condannato al declino, danno ancora molti segni di fiducia in se stessi. Se nei sondaggi chiediamo loro come vedono l’economia, la maggior parte risponde che va di male in peggio. Ma se chiediamo a ciascuno di loro come vede se stesso, beh la percentuale di risposte pessimistiche è molto inferiore. Questo dipende anche dal fatto che gli italiani, in generale, hanno un patrimonio più elevato rispetto ad altri popoli europei. Che non è solo un bene.
Perché? Pensi ai popoli che hanno un comportamento meno virtuoso – e quindi un debito privato più elevato – del nostro: quando altrove le cose vanno male, proprio perché c’è poco patrimonio accumulato, la gente reagisce molto più rapidamente, sia nel modificare i comportamenti economici, sia nel giungere alle dovute conclusioni in fatto di scelte politiche. Invece qui, malgrado siamo quasi tutti nella fase in cui bisogna intaccare il patrimonio per resistere alla crisi, si pensa che non ci sia ancora da preoccuparsi troppo. Non voglio fare l’elogio della corsa ai consumi, però parliamoci chiaro: l’Italia perde più Pil della Spagna, ma protesta meno. Certo, qualcuno va sulle torri, ma non ci sono stati scontri di piazza, né abbiamo avuto il fenomeno del sequestro dei manager. Dal canto mio, sono convinto che la gente protesterà alle urne.
Vittorio Feltri il mese scorso le ha predetto il risultato delle elezioni del 2013. Secondo la visione di Feltri, lei al momento figurerebbe tra gli “spiccioli vari”… Ascolti, non è mai successo che metà dell’elettorato, 18 milioni di persone, nei sondaggi abbia dichiarato che alle elezioni si asterrà o non ha idea per chi votare. Questo è un punto di discontinuità critico, ed è il momento in cui chi di solito parla come fanno i Ct della Nazionale da bar si tira indietro. Noi vogliamo metterci la faccia, anche se c’è solo una cosa di cui siamo sicuri: che ci proviamo.
Non conviene comunque cercare alleanze con i soggetti che hanno più chance di andare in Parlamento? No, non cercheremo né rapporti né collegamenti con i vecchi partiti. L’unica cosa interessante uscita dai vecchi partiti è Renzi, di cui apprezzo l’energia e il coraggio. Quella è la sola autogerminazione che c’è stata. Ma qual è il suo programma economico? Nel Pdl non c’è niente, mentre nell’Udc Casini continua a illudersi di riuscire a imbarcare qualche indipendente.
E allora come pensa di arrivare alla pancia degli italiani? Dobbiamo parlare a quelli che stanno peggio. Comunicando con esempi concreti.
Cioè? Prenda la riforma delle pensioni, un’operazione necessaria. Si è dovuto recuperare il tempo perso negli scorsi anni, generando anche vicende spiacevoli come quella degli esodati. E insieme con l’introduzione dell’Imu è stata una delle cause dell’abbattimento del tasso di fiducia degli italiani nello Stato. Nonostante questo, continuiamo ad avere una spesa previdenziale pari al 16% del Pil, in media il 3% in più rispetto agli altri Paesi europei. E attualmente ci sono 513 mila italiani con un trattamento previdenziale superiore ai 4 mila euro al mese. Sono tanti, e ci costano 9,5 miliardi di euro, mentre ci sono intere generazioni a venire che non arriveranno ai mille euro al mese di pensione. Si tratta di diritti acquisiti, ovvio che queste persone prendono così tanto perché hanno rispettato la legge. Ma siamo sicuri che non sia un capitolo da riprendere in mano per riequilibrare e risparmiare? Altro esempio: il cuneo fiscale. Nella prospettiva che abbiamo delineato ci sono due strade da seguire: o rendiamo le tasse uguali per tutti, oppure facciamo una selezione, imprimendo un’accelerazione dell’output potenziale o in risposta a chi sta peggio. Io penso a una modifica strutturale del contributo complessivo che ciascun lavoratore è chiamato a dare nel corso della sua vita. Non standard per età, ma molto basso all’inizio della carriera lavorativa e via via in crescita durante il percorso lavorativo.
È un meccanismo già sperimentato altrove? No, però è praticato a livello aziendale nelle grandi società. In Italia non riusciamo a entrare nell’ordine di idee che chi è più giovane costa meno e quindi prende anche meno. Da noi non avviene perché siamo vincolati dal contratto nazionale e dall’idea che i lavoratori sono tutti uguali.
L’Italia è un Paese dove trionfano i grandi principi. Sì, ma bisognerebbe capire quali principi sono efficienti, e sottoporli alla prova del tempo e dell’efficacia.
La realtà è che nella nostra Penisola bisogna smantellare corporazioni e caste che non vogliono cedere di un millimetro rispetto ai loro diritti acquisiti. Ce l’ha un asso nella manica? Dobbiamo stringere un patto con gli italiani. Prima di tutto bisogna ristabilire la fiducia dei mercati nei nostri confronti, e ridurre drasticamente il debito pubblico che avevamo promesso di abbattere 20 anni fa. Ce la si poteva fare: non c’era nemmeno bisogno di tagliare la spesa pubblica, bastava tenerla ferma. Ma lo Stato in questi anni ha buttato nel water 500 miliardi di avanzo primario, 200 miliardi derivati dalle privatizzazioni del ‘92-‘95 e poi 700 miliardi di minor spesa pubblica regalatici dall’euro. In tutto sono 1.400 miliardi di euro, un anno di Pil. Il debito pubblico si può abbattere al 90%, in termini sufficientemente rapidi. Come? Attribuendo la gestione del processo a un player del mercato. E l’operazione deve apparire irreversibile, altrimenti non ci crede più nessuno. Smobilizzeremo gli immobili pubblici non vincolati, con un’operazione seria sulle migliaia di controllate locali.
Non ha paura che qualcuno le rinfacci di voler dare via le “perle” dello Stato? Perle? Sono edifici in perdita: i mattoni di Stato hanno un rendimento negativo, quindi l’argomento non lo trovo fondato. Noi dobbiamo abbattere il debito pubblico di 6-7 punti in cinque anni, e solo allora potremo fare l’operazione di cui c’è bisogno sul conto economico pubblico. Ogni euro pubblico speso in meno si tradurrà in meno tasse. Ovvero, in cinque punti di pressione fiscale in meno in cinque anni. E ripeto: per vincere le resistenze serve un patto con gli italiani.
Questa storia del patto con gli italiani non si è già sentita…? È vero, ed è un altro dei torti terrificanti del Centro-destra. Ma va detto che la politica economica è stata la stessa anche con il Centro-sinistra, perché ormai è dettata dalla Ragioneria dello Stato, e non da politici pro tempore.
Secondo lei anche Monti ha fallito, seguendo l’impostazione – sbagliata – di Berlusconi e Tremonti rispetto soprattutto alla gestione del prelievo fiscale. Eppure Monti è l’uomo che gli italiani (così come gli esponenti della grande finanza internazionale) vorrebbero di nuovo al timone dell’Italia. Cosa le suggerisce questo paradosso? Non è un paradosso: è incontestabile e va riconosciuto a Mario Monti il fatto di aver ripristinato la credibilità dell’Italia nei consessi internazionali, che col governo precedente era precipitata nella polvere e nel fango, proprio mentre diventavamo il sospettato numero uno tra quelli che rischiavano di far saltare l’euro. Ma ora serve un cambio di marcia. Che Monti non ha fatto dopo il decreto Salvaitalia. Certo, lo attribuisco ai limiti del mandato che ha questo governo. Ma non doveva rinviare le riforme, avrebbero dovuto vararle subito, vincolando tutti quanti. Se il governo Monti avesse detto che dall’indomani il giorno sarebbe stato notte, e la notte giorno, Pdl, Pd e tutti gli altri partiti sarebbero stati costretti ad acconsentire.
A chi le dice che rappresenta una élite, come ha fatto Roberto Maroni, cosa risponde? Che capisco l’obiezione. Il bilancio critico che ho tratto dalla mia esperienza al Pri è la consapevolezza di un fallimento dovuto all’incapacità di spezzare un elitarismo, a volte un autocompiacimento elitario, che ha rappresentato un difetto storico, la sconfitta di quel mondo. Ora dobbiamo capire se siamo all’altezza di fare quello che diciamo. Sono sicuro che ci proveremo, anche se non mi aspetto dai media particolare attenzione. Ma dietro tutto ciò c’è la ragionevole convinzione di non voler assistere con le mani in mano alla protesta degli italiani che rischia di diventare l’anticamera della rassegnazione.
DAL PRI AL MANIFESTO ONLINE Classe 1961, torinese, Oscar Giannino è politico ancor prima che giornalista: segretario nazionale della Federazione giovanile repubblicana dal 1984 al 1987 è, fino al 1994, membro della direzione nazionale. Intraprende la carriera giornalistica nel 1988, scrivendo per La voce repubblicana, per poi lavorare a Liberal, al Foglio e al Riformista. Nel 2005 è vicedirettore di Finanza&Mercati e nel 2007 è direttore di LiberoMercato. Attualmente collabora con Panorama, Il Messaggero, Il Mattino e altri periodici. È senior fellow dell’Istituto Bruno Leoni, oltre che membro del comitato scientifico della Fondazione Italia Usa. Nell’estate 2012 ha annunciato il suo ritorno alla politica attiva. Sta lavorando alla creazione di un quotidiano online Nella foto Oscar Giannino ospite della trasmissione ‘L’ultima parola’ di Rai Due. Da un paio di mesi a questa parte, l’esponente di “Fermare il declino” si è sottoposto a un vero tour de force mediatico per raccontare la propria proposta politica. E, secondo un sondaggio di Renato Mannheimer, ci sarebbe già un 8% di potenziali elettori disposti a votare per lui alle prossime elezioni della primavera 2013 |
Oscar Giannino