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Texas da record

Le agenzie di rating hanno valutato con AA+ le obbligazioni emesse dal Tesoro di Austin. Le imprese hanno scelto di localizzarvi i propri impianti produttivi. I lavoratori vi hanno trovato nuove occupazioni. Merito dell’industria del petrolio e di un’imposizione fiscale ridotta

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Texas: che cosa fa venire in mente? Se uno dovesse rispondere senza rifletterci, come succede nei test psicologici, direbbe cose tipo: la frontiera, gli indiani, i film western, la guerra di Secessione combattuta accanto al Sud schiavista, l’assassinio di John F. Kennedy a Dallas, il centro spaziale diventato famoso con l’Apollo 13 («Houston, abbiamo un problema»), e ancora i pozzi di petrolio, la serie televisiva Dallas, i rodei e molto altro. A nessuno verrebbe in mente di associare quello Stato a una condizione economica particolare che lo rende un esempio sia a livello americano, sia a livello internazionale. L’economia del Texas è infatti in Occidente una delle pochissime, se non l’unica, a godere di ottima salute. Se ne sono accorte le agenzie di rating che a inizio settembre hanno alzato il loro giudizio sulle obbligazioni emesse dal Tesoro di Austin, la capitale dello Stato: sono state passate da AA a livello AA+. Appena un gradino sotto alla tripla A, il voto assegnato solo ai primissimi della classe, come la Germania. Questa valutazione non rappresenta solo una gratificazione morale, ma ha un valore molto concreto, perché significa che il Texas pagherà minori interessi sul debito. Certo, le agenzie di rating non sono la Bibbia: negli ultimi tempi avrebbero meritato di essere bocciate perché, per esempio, non avevano declassato per tempo la banca Lehman Brothers, prima che fallisse. Però nel caso del Texas è probabile che abbiano ragione: tutte e tre (S&P, Moody’s e Ficht) sono unanimi nel giudizio che si basa su dati verificabili.

Il fenomenoMa allora in che cosa consiste questa anomalia texana? Si può parlare di miracolo? Francamente no, perché il caso Texas ha radici profonde. Gli americani amano le statistiche e ne forniscono a iosa anche su questo grande Stato, secondo per popolazione (oltre 24 milioni) solo alla California. Entrato a far parte degli Stati Uniti nel 1845, è stato per molto tempo un Paese rurale: agricoltura estensiva (cotone) e allevamento del bestiame. La svolta nel 1901 quando è entrato in funzione spindletop, il primo pozzo petrolifero della zona. Dopo di lui molti altri sono stati aperti perché il sottosuolo si è rivelato ricchissimo: ancora oggi, dopo più di un secolo di sfruttamento, il Texas possiede un quarto delle riserve di greggio e di gas naturale degli Stati Uniti. Un fiume d’oro che per cent’anni, sotto forma di royalty, ha bagnato la casse pubbliche texane e che non è stato speso in opere faraoniche: molto è stato investito per finanziare un sistema universitario di primo livello, che oggi è uno degli elementi che consentono di resistere alla crisi. Politicamente il Texas è stato democratico fino agli anni ’80, per poi diventare un bastione repubblicano: George W. Bush ne era governatore quando venne eletto la prima volta alla Casa Bianca. È anche un baluardo del protestantesimo evangelico, il più tradizionalista: lo Stato appartiene a quella zona definita Bible belt proprio per la sua ortodossia religiosa. Certo non manca la violenza (è al quarto posto nazionale per numero di omicidi) e nel 1974 ha reintrodotto la pena di morte: nel 2007, 26 delle 42 condanne capitali eseguite negli Usa sono avvenute qui. Questo Stato così composito, questo melting pot fatto di wasp, ispanici, neri, asiatici, cattolici, protestanti ecc. ora è una realtà economica guardata con ammirazione e una punta di invidia. Soprattutto da parte di altri Stati che, come la California, ogni giorno devono inventare qualche espediente per evitare una bancarotta. Il suo prodotto interno lordo (2007) è stato di 1.090 miliardi di dollari, che nella classifica della ricchezza nazionale lo mette al secondo posto dietro la California, ma davanti a New York, lo Stato della Grande Mela simbolo stesso dell’opulenza, del sogno americano. E ne fa una potenza mondiale: l’economia del Texas si colloca a fianco di quelle indiana e canadese, rispettivamente undicesima e dodicesima nel ranking internazionale. Continuando con le statistiche si trovano due dati interessanti: il Pil pro capite, cioè la ricchezza prodotta ogni anno divisa per il numero degli abitanti, sempre nel 2007 è stato di 47.548 dollari, al livello della media nazionale. Ma il reddito procapite è stato di 22.502 dollari, di oltre 2.700 al di sotto di quella media. Questo significa che le grandi industrie del Texas sono delle straordinarie macchine produttrici di ricchezza, ma ne distribuiscono solo una parte in loco. O, in parole ancora più semplici, che i capitali che vengono investiti in Texas trovano costi bassi e remunerazioni molto alte. Questo anche perché la manodopera è abbondante e a buon mercato: siamo in una zona di confine, terra di immigrazione.

Effetto fisco

I capitali sono anche attratti da un altro elemento: l’imposizione fiscale molto bassa che lo Stato applica alle imprese. Una tradizione ad Austin, che l’attuale governatore, il repubblicano Rick Perry, ha conservato. I risultati di questi due elementi composti, più l’eccellente livello delle scuole superiori e delle università, più ancora un’ottima rete di servizi, ha portato a questi risultati: tra l’agosto del 2007 e l’agosto 2008 sono stati creati oltre 250 mila posti di lavoro; nel 2008 il 70% dei nuovi impieghi americani è stato originato qui; ancora nel novembre dell’anno scorso, uno dei momenti più acuti della recessione, il Texas ha visto crescere i posti di lavoro di 7.300 unità. Una cifra piccola, certo, però sempre positiva. In conclusione il tasso di disoccupazione in questo Stato è del 7,5%, quasi due punti sotto la media nazionale che arriva al 9,4%. Certo, la bassa imposizione fiscale è decisiva nel rendere il Paese del governatore Perry così appealing: le grandi corporation, quelle che figurano nella lista S&P 500, oggi sono più numerose qui che a New York, e il Texas occupa anche i posti più alti della graduatoria stilata ogni anno dalla rivista Forbes sulle migliori città per fare business in America. Non potrebbe andare diversamente: le imposte leggere sono un richiamo irresistibile per imprese che hanno visto gli utili falcidiati dalla crisi. Per esempio, un’azienda di cosmetici, la Farouk Systems, ha abbandonato le produzioni che aveva avviato in Paesi asiatici per sfruttare il bassissimo costo della manodopera ed è ritornata in Texas. «Produrre all’estero ci ha dato innegabili vantaggi economici perché il costo della manodopera è nettamente più basso» ha detto il fondatore della società. «Ma adesso potremo compensare i maggiori oneri per la manodopera con i tagli fiscali possibili in questo Stato». La domanda che viene spontanea è: se un fisco non esoso, che usa una mano molto leggera con i contribuenti, è la chiave per combattere la crisi e rilanciare l’economia, perché anche gli altri Stati non ne seguono l’esempio? Sembrerebbe una formula molto facile da applicare. Ma non è così. Il Texas lo fa perché se lo può permettere, perché per anni ha amministrato bene la finanza pubblica e oggi ha un attivo di bilancio di 9 miliardi di dollari. Attivo che il governatore ha deciso di accantonare in uno speciale “fondo per le emergenze” invece di destinarlo a nuove spese. Così lo Stato non ha bisogno di alzare le tasse a imprese e cittadini per far fronte alle sue esigenze. E questa morigeratezza continuerà a invogliare i capitali a indirizzarsi verso l’ospitale Texas. Un circolo virtuoso che si è creato in anni di saggia amministrazione. Aiutata anche da quell’immensa ricchezza del sottosuolo: il petrolio nel giardino di casa, se non viene sperperato è un bel vantaggio competitivo.

Altrove si tagliaCome dire ai propri elettori che lo Stato della California deve apportare tagli per un valore di 15 miliardi di dollari? Il governatore Arnold Schwarzenegger l’ha fatto, e non avrebbe potuto essere diversamente visti i suoi trascorsi hollywodiani, con un video messaggio pubblicato sul social network Twitter. Qui l’ex Terminator brandisce un coltello con il quale intende simbolicamente e ironicamente tagliare il deficit di 26,3 miliardi di dollari che grava sulla California e chiede ai suoi fan di inviargli consigli. Intanto, per recuperare almeno qualche dollaro, sono state messe all’asta su eBay sette auto di Stato…