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Capitali & talenti
Francesco Caio è uno dei top manager italiani che ha deciso di emigrare a Londra. Per salvare Cable & wireless. Ma anche per vivere in un ambiente economico dove vince il merito e non la cooptazione. “Qui ognuno ha in mano il proprio destino”
Quando Francesco Caio decise, nel 2003, di lasciare l’Italia e trasferirsi a Londra per risanare la Cable & Wireless, dopo aver gestito la Merloni e lanciato Omnitel, in molti pensarono che fosse un fatto naturale. Cioè: era scontato che un bravo manager andasse via dall’Italia per lavorare all’estero e che non si facesse più rivedere se non in età avanzata, magari per accettare qualche incarico di prestigio in una qualche industria con carenza d’immagine. A tutti è sembrato ovvio perché Caio è bravo. Quindi, si pensò, se ne va. Ora siede al vertice europeo di una delle più importanti banche d’affari del mondo, la Lehman Brothers, ma in molti lo danno sulla via del ritorno a casa per assumere incarichi di peso nel settore delle tlc (Telecom?), il suo primo, vero amore.
Dottor Caio, la prima domanda è: perché è andato via dall’Italia? Ho sempre avuto la fortuna di poter scegliere le opportunità professionali sulla base di ciò che mi appassionava e incuriosiva. Il mio primo lavoro, come stagista ancora universitario, fu in Francia presso EdF (Electricité de France, attuale proprietaria della Edison, ndr). Dopo la laurea fui attratto da Olivetti a Milano. Poi in McKinsey a Londra per lavorare sulle prime liberalizzazioni. Di nuovo in Italia per la sfida Omnitel e il rilancio Merloni. Il turn around Cable & Wireless mi ha riportato a Londra. Questo per dire che non ho mai cercato di lasciare il mio Paese, semplicemente mi sono state offerte delle occasioni di crescita professionale che mi hanno spinto a lavorare all’estero. Ammesso che Londra possa essere considerata “estero” per i manager e le imprese italiane.In effetti ormai a Londra c’è una concentrazione impressionante di manager italiani che occupano o hanno occupato incarichi di grande prestigio e responsabilità: lei, Vittorio Colao (numero due mondiale della Vodafone), Claudio Costamagna (ex responsabile della Goldman Sachs).
È un caso?Ognuno ha motivazioni e percorsi diversi. Vittorio e Claudio, dei quali sono amico, sono due bravissimi professionisti ai quali Londra ha saputo offrire sfide interessanti. D’altra parte i talenti tendono a seguire le opportunità più significative e che li fanno crescere. La presenza di molti italiani all’estero sta a significare che, evidentemente, in Italia non vengono date le stesse opportunità. Però, francamente, io non vedo una divisione manichea tra i manager bravi che vanno via dall’Italia e tutti gli altri che restano. Non è affatto così, e lo dico essendo assolutamente convinto che nelle aziende italiane operino grandissimi professionisti. Il discorso è un po’ diverso. Ciò che spinge un manager italiano a uscire e andare a lavorare a Londra è il fatto che questo Paese è un bel mix tra cultura americana ed europea: meritocrazia, orientamento al mercato e al consumatore, tipiche della cultura anglosassone, qui si sposano con un forte senso di condivisione e un welfare di stampo tipicamente europeo. E funziona.
Un esempio?Le faccio il mio. Da amministratore delegato di Cable & 2Wireless ho dovuto procedere, per salvare l’azienda, a una fortissima ristrutturazione. Quando ho lasciato la società, C&W aveva più o meno la metà dei dipendenti di quando sono arrivato e l’ho potuto fare proprio perché esiste un welfare che me lo ha permesso. E, soprattutto, nel corso del mio lavoro non ho avuto alcuna pressione contraria da parte di nessuno perché tutti sapevano che le persone che uscivano da C&W, se avessero voluto, avrebbero avuto una seconda, una terza, una quarta possibilità per mettere a frutto la loro esperienza e il loro entusiasmo.
È questa la caratteristica che più l’ha colpita di Londra?Sì, il fatto che, grazie al connubio culturale di cui parlavo prima, questo paese ha trovato un originale meccanismo che permette a chiunque di mettersi in gioco e di cogliere le opportunità che gli si presentano, se vuole. Non importa chi si è e da dove si viene, importa cosa vuoi e quanto sei disposto a impegnarti per raggiungere il tuo obiettivo. Qui ognuno ha in mano il proprio destino molto di più di quanto non lo avrebbe se restasse in Italia.
In Italia non è così?Si può scegliere poco. E non solo per la differenza della struttura industriale rispetto a quella britannica.
E perché allora?Uno dei motivi principali riguarda le regole. Capitali e talenti hanno bisogno, per realizzarsi nelle loro massime potenzialità, di regole chiare, semplici e soprattutto certe. Se queste regole vengono cambiate in corsa, è evidente che si insinua la sfiducia nella solidità del sistema che ingenera incertezza, la quale è nemica della crescita economica e sociale di un Paese. E, direi, anche della crescita personale del singolo.In Italia le persone non vengono valutate per il merito e i risultati. Sia nel settore pubblico che in quello privato.
È questo quello che vuole dire? In Italia ci sono molte persone di grande valore in aziende pubbliche e private. Mi sembra però che la selezione della classe dirigente – nel pubblico e nel privato – sia spesso basata su processi di cooptazione in cui le relazioni vincono sulle competenze. Così la competitività di tutto il sistema ne soffre. Da noi esiste un’economia di relazione nella quale spesso vince non il migliore, ma colui che è più contiguo al centro di potere fonte delle scelte. Io, invece, sono per un’economia di relazione che, sulla base di criteri oggettivi e regole chiare e inviolabili, selezioni il migliore. Oggi questo tipo di meccanismo di selezione non funziona o funziona troppo poco.
Da qui la fuga di manager…Da qui anche lo spreco di risorse. Le faccio un esempio. Se andiamo a vedere quanto l’Italia investe in ricerca, ci accorgiamo che le risorse non sono poi molto più basse, proporzionalmente, rispetto a quelle messe in campo da un Paese come gli Usa. Il fatto è che da noi sono divise tra molti più soggetti, sempre proporzionalmente. Da noi ci sono, ad esempio, troppe università nate un po’ ovunque con il solo scopo di far contenti un po’ tutti. Usano risorse che dovrebbero essere invece destinate alla formazione e al consolidamento di veri centri d’eccellenza che, infatti, da noi sono troppo pochi.
Qual è l’area del mondo dove è più eccitante per un giovane iniziare una carriera da manager?Quelle dove trova i progetti che lo appassionano. Per chi ama l’innovazione tecnologica la California è ancora un’area di grandissima attrazione. Per chi ama la meccanica o il design industriale l’Italia è un punto di riferimento globale. Io mi sono fatto guidare dall’interesse professionale. È ancora oggi il mio consiglio a chi inizia il suo percorso.
Quale reazione dovrebbe avere l’Europa, e ogni singolo stato, verso la concorrenza delle tigri asiatiche?Dovrebbe accertarsi che esista una totale simmetria delle regole e che queste vengano rispettate. Maggiore concorrenza non può che creare innovazione e ricchezza. 40 anni fa eravamo noi italiani i cinesi in Europa. Oggi dobbiamo trovare nuovi campi di eccellenza per vincere e crescere.
Da un punto di vista economico, cosa pensa dell’allargamento dell’Europa a Est? E alla Turchia?Ne penso tutto il bene possibile. Credo però anche che si dovranno rivedere le regole di governo perché una comunità a 30 membri non può funzionare con le regole di una a 10. Ma l’allargamento è un fattore di stabilità e crescita per tutta l’Europa.
Parliamo di telecomunicazioni, che resta la sua prima grande passione. Lei ha detto che il sistema di tariffazione si è ormai orientato definitivamente al meccanismo del pagamento forfettario mensile, il flat, e che la competizione non permette di aumentare i prezzi. Le imprese di tlc sembrano, insomma, condannate a guadagnare sempre meno in futuro. A meno che non si aumenti il numero dei mesi… C’è una soluzione?Il settore delle telecomunicazioni è entrato in 2una fase di maturità a bassa crescita e con profitti sotto pressione anche per una maggiore concorrenza. Ci sono segmenti in crescita, primo tra tutti la banda larga, ma hanno margini più bassi dei servizi tradizionali in graduale declino. Non esiste una ricetta magica. Si devono combinare una chiara visione strategica con una forte capacità gestionale: sempre più attenzione alla qualità del servizio al cliente, riduzione dei costi, controllo rigoroso degli investimenti.
Per anni il dibattito nel settore delle tlc è ruotato intorno al concetto di convergenza. Ci può dare una definizione di convergenza e dei benefici che può portare al cliente finale?La tecnologia Internet sta gradualmente abbracciando tutti i servizi di comunicazione: la telefonia, la posta elettronica, le reti dati aziendali, la radio, la televisione. Tutti convergono sulla stessa rete. Allo stesso tempo si moltiplicano le tipologie di terminali che si connettono a Internet: non solo più Pc, ma telefoni, riproduttori Mp3, macchine fotografiche digitali, radio, set top box ecc. Questi tendono a essere più semplici da usare e meno vincolati alla scrivania. Quindi è vero che si va verso la convergenza della rete ma, contemporaneamente, si assiste a una divergenza dal lato degli utenti e degli utilizzi.
Lei crede che ci sia ancora spazio per un processo di aggregazione nel settore delle tlc europee? E quale sarà secondo lei la prossima mossa dei big?In Europa nel settore della telefonia mobile il processo si è già avviato: Vodafone, Telefonica, Deutsche Telekom, France Telecom hanno tutte aggregato operatori mobili in più Paesi. Sul fisso siamo ancora agli inizi, se solo si guarda, per esempio, a quanto successo negli Stati Uniti. Penso che le prossime mosse potrebbero essere aggregazioni tra operatori più piccoli per raggiungere massa critica o grandi gestori che investono per ampliare la propria gamma di servizi.
A livello di servizi, invece, cosa dobbiamo aspettarci?Molte delle funzioni che oggi sono sul Pc saranno “assorbite” nella rete e in altri terminali. Si creano opportunità di nuovi servizi: la gestione in rete dei nostri documenti, della musica e delle foto, la sincronizzazione delle nostre rubriche tra più terminali. C’è molta attenzione sulla Tv via Internet, ma penso che il grosso dell’innovazione sarà in servizi che renderanno la rete allo stesso tempo più facile da usare, più diffusa e meno visibile.
A cosa le fa pensare il fatto che in Italia, uno dei migliori mercati delle tlc in Europa, solo Telecom sia ancora di proprietà italiana mentre Vodafone è inglese, la 3 cinese e Wind egiziana? Come è potuto succedere? E soprattutto, è un problema?L’Italia ha una lunga storia di eccellenza e innovazione nelle telecomunicazioni. Omnitel/Vodafone Italia resta uno dei migliori gestori mobili a livello mondiale. Fastweb è stata la prima rete al mondo basata interamente su tecnologia Ip. Ma si pensi anche a Italtel o a Telettra in tempi più lontani. Il fatto che molti dei nostri operatori più grandi siano di proprietà straniera non è di per sé un male. Peccato che nessuno dei nostri gestori abbia fatto investimenti simili in altri Paesi europei. Questo rammarica.
Riguardo alle infrastrutture, invece, lei crede che la loro proprietà pubblica sia un fattore distorsivo della concorrenza e della loro efficienza?Il tema non è la proprietà delle reti infrastrutturali, ma la separazione nettissima che deve esserci tra arbitri, cioè chi decide le regole, e giocatori, cioè i proprietari. Il problema non è a chi appartiene, per esempio, la rete di trasporto del gas o chi è il proprietario della rete elettrica, il punto decisivo è che le authority controllino che chi si trova in una posizione di monopolio, fosse anche “naturale”, non crei una posizione di rendita da monopolio. Io concentrerei l’attenzione, quindi, non sui proprietari, ma sui controllori. E sulle regole che, insisto, devono essere chiare e certe.
Quando torna in Italia?Adesso il mio impegno è qui, con Lehman Brothers a Londra. Ma il mio ruolo mi porta a lavorare su grandi processi di investimenti e ristrutturazioni in tutta Europa e quindi anche in Italia. Penso che sarà sempre più l’Europa il mercato domestico per chi guiderà le imprese, ed è per questo che è in Europa che mi sento a casa.
LE PASSIONI DI CAIO | ||
LibroCostruire la città dell’uomo di Adriano Olivetti | Programma Tv Il Tg | VinoAmarone |
FilmIl vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini | LuogoMilano | SquadraInter |
Musica Enrico Rava | PiattoLe melanzane alla parmigiana |
Francesco Caio è nato nel 1957 a Napoli, si è laureato in Ingegneria elettronica al Politecnico di Milano, conseguendo un Master alla Insead di Fontainebleau in Francia. Dopo anni di esperienza come product manager in Olivetti e responsabile della pianificazione e controllo della divisione servizi telematici nella Sarin del gruppo Stet, si trasferisce, dall’86 al ‘91, alla McKinsey a Londra. In seguito sino al ‘93 torna in Olivetti. Dal ‘94 al ‘96 è a.d. di Omnitel Pronto Italia. Nello stesso anno lascia Omnitel e diventa a.d. di Olivetti. Nel ‘97 diventa a.d. di Merloni Elettrodomestici dove resta sino al 2000 quando si trasferisce come ceo in Netscalibur Italia. Dal 2000 è membro del Cda di Motorola e, nel marzo del ‘03, viene nominato a.d. di Cable&Wireless, del quale diventa anche consigliere d’amministrazione. Oggi è vice chairman per l’Europa della banca d’affari Lehman Brothers