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L’Italia ha il diritto di cambiare

Vocazione internazionale e un forte radicamento territoriale. Ecco la ricetta per affrontare il tema del lavoro nell’era della globalizzazione, e per di più nel paese dei mille campanili. Che se vuole sopravvivere deve rinunciare alle imposizioni dei sindacati più intransigenti. Ma l’avvocato milanese in realtà ce l’ha anche con tutti quelli che danno contro al cosiddetto precariato…

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Francesco Rotondi ha un’idea tutta sua di diritto del lavoro. Anche perché questa disciplina, dice, è la sua unica vera grande passione. Così non stupisce che alla classica carriera forense, che di solito s’inerpica anno dopo anno tra le scartoffie di un grande e perché no blasonato studio legale, ha preferito creare una struttura tutta sua, che rispecchiasse le sue idee sulla professione. Nasce così a Milano Lablaw, studio legale specializzato in diritto del lavoro, che nel giro di cinque anni è riuscito oltre che a imporsi sulla scena internazionale, anche a piantare salde radici nelle realtà di diversi distretti produttivi italiani, dal Triveneto a Pescara. Ma, pur essendo un avvocato, Rotondi è tutto fuorché diplomatico. Leggere per credere.

Quando ha fondato lo studio nel 2006 vi aspettavate che il tema della contrattazione in Italia sarebbe presto diventato incandescente?Abbiamo aperto in un momento favorevole, in questo abbiamo avuto fortuna, certo. Ma il diritto del lavoro è sempre in fermento, e il diritto sindacale è per definizione in movimento continuo, è quasi un non-diritto. Attenzione, sembra un’affermazione molto forte, ma a volte ci si dimentica che è un diritto che vive intorno a quattro leggi. Il resto ha a che fare più con le relazioni industriali, che con le norme. Chiunque, in qualsiasi momento storico, avrebbe potuto pensare di fondare uno studio specializzato in diritto del lavoro, e si sarebbe potuto avvalere del cambiamento contingente. Come nel ‘91, all’alba della crisi del Golfo, oppure nel ‘92 quando ci furono Tangentopoli e la concertazione. Questo settore non sarà mai carente di eventi capaci di modificare lo status quo. Noi però siamo riusciti a muoverci con anticipo rispetto all’idea che ci sarebbe stato bisogno di 50 avvocati specializzati in diritto del lavoro su tutto il territorio.

Perché questa idea?Professionalmente io nasco all’inizio degli anni ‘90 nel più importante studio specializzato in diritto del lavoro, Trifirò and Partners. Lì ho incontrato Giacinto Favalli, il mio maestro. Ho imparato tutto quello che c’era da imparare rispetto a contrattazione, licenziamenti collettivi, relazioni sindacali. Dal ‘91 in avanti ho assistito a tutte le più grosse procedure di mobilità. Tutto quello che si affronta al massimo due tre volte in una carriera, io l’ho sperimentato nel giro di pochi anni, e amplificato. In questo periodo il quadro del mercato degli studi legali era molto diverso da quello odierno. All’epoca entrare in uno studio con la prospettiva di fare carriera all’interno era l’idea ordinaria, ma fu messa drammaticamente in discussione dagli eventi. Si iniziò a parlare di globalizzazione, e ci fu l’ingresso dei grandi studi internazionali, i cosiddetti Big five. La sensazione che improvvisamente l’imperativo fosse diventato superare i confini misero in crisi l’idea dell’avvocato azzeccagarbugli. Cercavo di capire il futuro, e fu in quel momento che maturai l’idea dell’internazionale con un impianto territoriale. Ecco perché sono entrato in Hammonds e Rossotto. Una scelta mediana, uno studio internazionale ma di matrice italiana. Sono rimasto per cinque anni e poi ho condiviso con un amico e collega, Luca Failla, la convinzione che avevo maturato: il mercato del diritto del lavoro non avrebbe mai vissuto un’epoca generalista, né tanto meno un’epoca di condivisione con altri settori del diritto. Ed è così che abbiamo dato vita a uno studio specializzato con duplice natura, nazionale ma con un respiro internazionale: Lablaw. Un unicum nel panorama del mercato tricolore, soprattutto l’unico studio legale di diritto del lavoro che ha vinto per tre anni consecutivi il premio assegnato da TopLegal come “Studio Labour dell’anno”.

Dove avete recuperato competenze e professionalità?Abbiamo avuto la fortuna di fare innamorare del nostro progetto tutti coloro che già collaboravano con noi da anni e successivamente lo studio è stato in grado di attrarre altri talenti dal mercato. Intendiamo comunque non smettere mai di leggere il mercato alla ricerca di chi è davvero meritevole in uno specifico territorio.

Lei continua a parlare di territorio… Perché avete scelto di aprire, dopo Milano e Roma, delle sedi a Pescara e a Padova?La nostra convinzione è che il diritto del lavoro diventerà sempre più territoriale. La scelta delle sedi è dovuta per l’appunto a una verifica che abbiamo condotto sul territorio, con tutto quello che può esprimere dal punto di vista industriale, dell’offerta, della consulenza, e dell’approccio alla materia e al cliente ivi richiesto. Pensando a Pescara, abbiamo scoperto che in Abruzzo c’è un grande fervore… Una città veramente particolare. Per Padova il ragionamento non cambia. È il territorio che forgia il mercato del lavoro, attraverso le sue tradizioni e la sua cultura. Noi forniamo un sistema, competenze trasversali e un respiro internazionale. È dal confronto tra realtà diverse che nasce il miglioramento.

Quali aziende si affidano a uno studio legale come il vostro?Uno studio come il nostro ha per lo più una clientela di medio-grandi e grandissime dimensioni, con un’imprenditoria mista tra nazionale e internazionale. La nostra capacità di essere al fianco di ogni tipo di azienda ci permette di lavorare praticamente in tutti i settori: servizi, commercio, Tlc, metalmeccanico, e anche nel mercato della somministrazione di lavoro, dove siamo i leader.

Rispetto ai manager, quali situazioni prendete in carico?Il nostro studio ha un’impronta datoriale e prestiamo anche una consulenza molto articolata ai top manager. Non si tratta solo di casi di impugnazione del licenziamento, ma gestiamo e interveniamo nei consigli di amministrazione, nella costituzione dei contratti e dei sistemi retributivi.

Quali sono le carenze del mercato italiano, ora che nell’ambito del lavoro sono stati puntati i riflettori su dinamiche, strumenti e soluzioni che all’estero funzionano?Innanzitutto vorrei fare una critica dal punto di vista della comunicazione, che molto spesso tende a sovrapporre concetti che in realtà sono assolutamente autonomi. Cosa si intende per mercato del lavoro? In termini giuridici, l’espressione mercato del lavoro non significa niente. Una cosa è la normativa del lavoro, altro è il mercato del lavoro. Il primo è essenzialmente un fattore economico, il secondo è un fattore sociale. E la normativa è ciò che lo governa. Fatto questo distinguo, dal punto di vista normativo io credo che nulla manchi al nostro ordinamento, e nulla mai mancherà. Ma nel nostro Paese non c’è il coordinamento, la capacità di muovere le norme di pari passo con l’evolvere della situazione. E men che meno la rapidità nel piegarle al mercato. Fare il contrario, come a volte si tenta, è impossibile: prima nasce l’uomo e poi il diritto.

È solo una questione di mancato coordinamento?Dopo gli anni ‘70 non abbiamo fatto altro che assistere a un aggiustamento continuo e scoordinato della normativa, una rincorsa senza sosta per trovare una fatidica legge che consentisse di fare qualcosa. Resto perplesso quando sento dire che l’Italia ha il maggior numero di tipi di contratti di lavoro. Cosa vuol dire? Quando anche avessi milioni di tipologie di contratto, ma non ho il lavoro, cosa ottengo? Le norme dovrebbero leggere le esigenze del mercato del lavoro, e non erigersi come un totem.

Allude alla polemica sull’articolo 18?Io credo che anche le migliori leggi abbiano un contesto socio-economico, forse anche quello dell’articolo 18 e di una serie di altre norme è mutato. Immaginiamo l’articolo 18 nel suo contesto naturale, nel mercato del lavoro degli anni ‘70, quando si veniva assunti in un’azienda con un contratto di formazione e lavoro e ci si rimaneva fino al momento di andare in pensione. Allora era una legge fondata. Ma oggi non è più così, non esiste l’idea che un’impresa possa garantire un percorso di questo tipo. Se l’impresa è cambiata in questa direzione, perché non devono cambiare le norme? Il che non significa annientare i diritti, ma adattarli.

Su quali leve bisognerebbe agire per rendere il lavoro più fluido?Tanto per cominciare, bisogna abolire i tabù. Il cambiamento che serve non riguarda il mercato, né le norme: è di natura socioculturale. Dobbiamo abbandonare una serie di convinzioni e abitudini che non abbiamo mai posto in discussione. Oggi non c’è più scelta, c’è da pagare un prezzo altissimo, non importa che sia per una crisi che non è stata provocata da noi. Va cambiato l’approccio, si deve abbandonare l’idea che in un rapporto di lavoro qualcuno voglia sfruttare qualcun altro. La verità è che noi dal dopoguerra in avanti siamo passati indenni, evitando qualsiasi cambiamento, attraverso trasformazioni che hanno rivoluzionato l’economia mondiale. Come si sono affrontate le varie crisi in Italia? Col sistema previdenziale: il lavoro scarseggia? Mandiamo i lavoratori in pensione a 45 anni anziché riqualificarli. Le grandi aziende hanno problemi di produttività? Facciamo la mobilità lunga. Non abbiamo mai risolto il problema, abbiamo curato i sintomi della malattia. Si rende conto che è stato solo l’anno scorso che abbiamo cominciato a pensare che potesse esserci l’obbligo di formazione per un cassaintegrato? Ci dicono: creiamo un’imprenditoria diversa. Ma cosa è stato proposto, per esempio, per promuovere l’artigianato? Agevolazioni, norme ad hoc, scuole professionali? Niente. Anzi, il contrario.

A quali altri mercati europei dovremmo guardare?A quelli nei quali la concertazione ha dato i suoi frutti. La Germania sotto questo profilo rappresenta uno straordinario esempio.

Cosa pensa della cassa integrazione?La cassa integrazione è uno strumento straordinario. Ma anche qui, come viene utilizzata? Le persone rimangono a casa senza fare nulla. Senza la possibilità di investire sul loro futuro. Perché invece non vengono mandate a lavorare, avendo per retribuzione la cassa, per l’appunto, in altre aziende? In questo modo i cassaintegrati potrebbero specializzarsi ulteriormente, o acquisire nuove competenze. Nella nostra Costituzione il primo articolo arriva quasi a confondere il lavoratore col cittadino, quasi come se chi non lavora non possa essere considerato cittadino. Oggi siamo all’opposto. E quando sento parlare di precariato…

Dica.La parola precariato non significa niente. Non è un fatto normativo e non è abolendo l’articolo 18 che salviamo il futuro dei giovani. E ancora, non è l’articolo 18 a salvaguardare l’occupazione giovanile, ma la costruzione di un sistema di inserimento al lavoro, di qualificazione sul lavoro e di riqualificazione professionale in caso di perdita del lavoro che garantisce stabilità al sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro assicurando “futuro” alle nuove generazioni.

Non è proprio l’idea dei sindacati. Come li giudica? Il sindacato, così come l’interlocutore statale, da sempre, ha vissuto il tema in maniera politicizzata. Temo che così sia difficile trovare una soluzione . Un problema è un problema: se un’azienda è in pericolo, non ne esce se chi deve proporre soluzioni si pone in maniera apodittica. I principi alla base della discussione sono straordinari, ma vanno adeguati ai tempi. Per esempio, oggi parlare di uguaglianza di tutti i lavoratori è difficile, anche solo stabilendo un paragone territoriale. Bisogna prendere atto che, tanto per fare un esempio, se a Milano una receptionist è assunta ai minimi contrattuali, fa fatica ad arrivare a fine mese. A Cagliari, con lo stesso contratto, potrebbe non incontrare questa difficoltà. Questi sono discorsi che i sindacalisti non vogliono sentire. E, parlando in generale, la situazione è peggiorata col tempo. Cioè?Dal ‘91 a oggi c’è stato un decadimento totale degli interlocutori, in termini di capacità dialettica e gestionale. Negli anni ‘90 ci furono le grandi battaglie del licenziamento collettivo e degli ammortizzatori sociali. Ma al di là delle grandi battaglie c’era grande stima reciproca tra gli interlocutori, tutti avevano contezza della materia e degli strumenti. Dopo la fine degli anni ‘90, con l’uscita di scena del pensiero che aveva dato vita alle scuole di formazione, con la crisi che ha impossibilitato a trovare fondi per proporre altri percorsi culturali, e un mercato che dava sempre più spazio a Internet, ai servizi e a una popolazione di lavoratori diversa dal popolo delle tute blu, anche come struttura culturale e dimensione reddituale, la figura del sindacalista è scomparsa. Oggi le sigle si attivano solo nei momenti di grande crisi. E l’imprenditore li chiama solo quando è già troppo tardi. Attenzione però: ho incontrato anche sindacalisti illuminati, con cui il dialogo è riuscito a dare i frutti sperati.

LE PASSIONI DI FRANCESCO ROTONDI

Libro Mi appassionano i libri dedicati all’esoterismo

Programma Tv Seguo le serie americane come Csi e i programmi di approfondimento, da Porta a porta a Servizio pubblico

Hobby Colleziono penne stilografiche e orologi, di cui conosco ogni singolo meccanismo

Tecnologia Sono patito di Mac e iPad

Auto Adoro le auto veloci, fa parte della mia natura

Squadra Tifo il Milan, una grandissima passione

Sport Amo le discipline da combattimento e gli sport estremi

Piatto La carne cucinata in tutti i modi. Anzi, meglio se cruda!

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Francesco Rotondi, classe 1966, sposato con tre figli. Milanese, una laurea in giurisprudenza, dice di aver sempre avuto la passione per il diritto del lavoro. Dopo le esperienze nello studio Trifirò and Partners e in Hammonds and Rossotto, Rotondi, insieme a Luca Failla, ha fondato nel 2006 il proprio studio legale, Lablaw, specializzato in diritto del lavoro. Pur essendo profondamente radicato nella realtà imprenditoriale italiana, lo studio di rotondi ha ricevuto già diversi attestati a livello internazionale.