Protagonisti
Filippo Venturi: la fotografia come indagine del reale
Così interpreta il suo lavoro il fotoreporter di Cesena. Tanto che, per lui, la bellezza non rappresenta il principale metro di valutazione di uno scatto. Quello che davvero importa è veicolare un messaggio
L’intervista al fotografo Filippo Venturi è parte dello speciale
Intercettiamo Filippo Venturi, 43 anni, di Cesena, mentre è in pausa forzata per una frattura al polso destro: un bel problema per uno come lui abituato a muoversi nel mondo per cercare «il volto nascosto delle cose». Fotoreporter, indaga – come ci precisa lui stesso – «storie e problematiche riguardanti l’identità e la condizione umana, concentrandomi sulle conseguenze del rapido progresso tecnologico di alcune aree del Pianeta». Presto sarà a Taiwan, per un progetto su una delle aree più calde, dal punto di vista geopolitico, della Terra. In passato ha documentato la vita a Dubai, in Kazakistan, nella Corea del Sud (ben prima che diventasse di moda).
Quando ha deciso che il fotoreportage era il suo genere?
Mi sono avvicinato alla fotografia relativamente tardi, a 28 anni, e fin da subito ciò che maggiormente mi interessava analizzare erano le storie di vita vera. C’è stato un periodo in cui mi sono divertito anche a usare sperimentazioni e a lavorare molto con Photoshop, ma poi sono ritornato alla spinta iniziale: volevo, per quanto possibile, realizzare scatti fedeli alla realtà. Ma quale foto è davvero reale?
Che cosa intende?
Il mio, come quello di ciascun fotografo, è semplicemente un punto di vista. Uno tra tanti. Non solo: una volta realizzato un lavoro, seleziono dai tanti scatti fatti quelli che più aderiscono al mio progetto, ed ecco un’altra selezione. La complessità del reale, inevitabilmente, si perde, ma diciamo che il fotogiornalismo resta un tentativo valido di indagine.
Sono noti i suoi lavori sulla Corea: com’è nato l’interesse per quella regione?
Partiamo dalla Corea del Sud. Nei miei lavori ho sempre cercato di raccontare per immagini vicende non troppo inflazionate e all’epoca, eravamo nel 2014, non c’era ancora l’interesse attuale per la Corea. Della Corea del Sud mi incuriosivano le contraddizioni e mi sono concentrato sulle nuove generazioni, strette tra le loro passioni, come la musica, l’aderenza a modelli estetici molto precisi, e la competitività che viene loro inculcata fin da piccoli per eccellere a scuola, nello sport, sul lavoro. Ho impiegato un anno per studiare a fondo il Paese e nel 2015 ho realizzato un ampio reportage.
Quando, secondo Filippo Venturi, si può dire che un fotoreportage sia riuscito?
Un lavoro documentaristico raggiunge il suo scopo quando suscita in chi lo guarda delle osservazioni ed è capace di abbattere qualche pregiudizio.
Quando invece, dal suo punto di vista, una foto è bella?
Nel fotogiornalismo che una foto sia bella o “troppo bella” può essere un problema. Mi spiego meglio: da fotografo, devi valutare se quello scatto, magari esteticamente riuscito, sia davvero utile alla tua narrazione e coerente con il tuo progetto. Per tornare alla Corea del Sud, con dei soggetti giovani, molto attenti all’estetica, non è stato difficile fare delle foto “belle”, ma bisogna poi anche veicolare il resto del messaggio.
Il fotogiornalismo, anche quello di guerra di questi mesi, sta diventando troppo estetizzante?
Non saprei. Diciamo che c’è una crescente attenzione a composizioni più curate, a scatti con colori meno granulosi: vedo una tendenza, anche da zone di guerra, a realizzare foto “pulite”. Ci sono poi degli stilemi che, dal fronte, ritornano, come quello della Pietà di Michelangelo, con la vittima di turno accolta tra le braccia di un parente.
Qual è, allora, il confine tra il giusto e il bello?
E chi lo sa. Io seguo le regole che dà il World Press Photo (l’organizzazione del più importante premio di fotogiornalismo, ndr): gli scatti si possono saturare o de-saturare leggermente, ma è vietato aggiungere o togliere elementi o persone dallo scatto, perché sarebbe una deformazione della realtà.
Torniamo alla Corea: lei è stato tra i pochi ad andare anche a nord del 38esimo parallelo…
Era maggio del 2017 e, con Trump alla Casa Bianca, la situazione era parecchio tesa: c’era l’aperta minaccia di una guerra con Pyongyang. Io e la giornalista che era con me eravamo sempre scortati da guide e la sera ci era vietato uscire dall’albergo. Siamo rimasti due settimane quasi senza connessione a Internet. In quel caso ho dovuto sfruttare ogni occasione possibile per svelare la vera anima di un Paese tenuto in ostaggio.