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Sostenibilità

Patagonia: la Terra come unico azionista

È l’inevitabile punto di arrivo della storia imprenditoriale di Yvon Chouinard, fondatore dell’azienda di abbigliamento outdoor, divenuta promotrice di un vero e proprio movimento di tutela del pianeta

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«Non ho mai voluto fare l’imprenditore ». Inizia così la lettera che il 16 settembre 2022 Yvon Chouinard, fondatore della sportswear house Patagonia e ispiratore di una vera e propria rete di attività ambientaliste, ha inviato a tutti i suoi dipendenti. Il motivo? Annunciare una scelta tanto radicale quanto coerente con il personaggio. Chouinard, infatti, che oggi ha 84 anni, sente giunto il momento di lasciare il timone di un’azienda che, a dispetto delle premesse, è valutata la bellezza di 3 miliardi di dollari. Ma in favore di chi? Il problema nasce dalla particolare vocazione ambientalista del fondatore e della sua creatura, vocazione ampiamente confermata e sviluppata negli anni, tanto da diventare un caso industriale.
L’imprenditore-suo-malgrado che non si è mai appassionato al mito del self-made man  americano, non ha mai inseguito il profitto ma al contrario, disprezzato ogni affermazione narcisistica, aborrito lo sfruttamento delle risorse naturali e umane per raschiare qualcosa in più dall’iconico fondo del barile, ha infatti performato meglio della maggior parte dei suoi competitor. Il segreto di tanto successo è racchiuso nel titolo di uno dei suoi libri più famosi, Let my people go surfing (Emiciclo, 2018), un approccio cioè sin dall’inizio regolato da precise priorità: lavorare tanto quanto basta per godere delle bellezze della natura, reperire le risorse necessarie e non di più, crescere solo se l’etica lo permette e, soprattutto, non praticare sacrifici umani sull’altare del dio denaro. Chi non si sentirebbe di condividere tutto questo, chi non vorrebbe essere protagonista di un vero e proprio movimento di tutela del mondo e delle sue creature più fragili? Patagonia l’ha reso possibile, semplicemente indossando un capo d’abbigliamento.

Ma facciamo un passo indietro. Yvon Chuinard voleva fare l’alpinista ed è stato tra i grandi della sua epoca. Anche per questo ha iniziato il percorso imprenditoriale producendo la propria attrezzatura tecnica da montagna. Tradizionale inizialmente, finché non risultò che l’alluminio, invece dell’acciaio, impattava meno sulla roccia, preservandola. La disponibilità senza rimpianti a cambiare tutta la produzione, nonostante fosse la sua fonte principale di profitto, diceva già molto sul futuro patron di Patagonia. L’avventura vera e propria con Patagonia, però, ha avuto inizio nel 1970, dalla casuale constatazione che delle maglie da rugby, acquistate durante un viaggio in Inghilterra, si erano rivelate ideali per leggerezza e robustezza durante le scalate. Ha iniziato a venderle e non si è mai più fermato, ma senza perdere di vista lo scopo principale: creare prodotti che rispondessero a esigenze reali di sportivi e appassionati di outdoor, durevoli e compatibili con l’amore per l’ambiente di chi li avrebbe usati. Negli anni, il senso di responsabilità che ha determinato le strategie di produzione di Patagonia non è cambiato, caso mai si è evoluto, raffinato, approfondito.

Yvon Chouinard © Photo Campbell Brewer

Man mano che venivano prodotti studi di settore che evidenziavano come il mondo della moda fosse responsabile per buona parte dell’inquinamento delle falde acquifere, dello sfruttamento delle risorse agricole e idriche, per non parlare di manodopera (femminile e minorile soprattutto) ridotta in simil schiavitù per far fronte alle richieste di capi usa e getta a bassissimo costo, arrivavano nuovi aggiustamenti alla catena di produzione, nuovi materiali da scoprire, nuove soluzioni per impattare sempre meno. C’è voluto il tragico crollo dei locali del Rana Plaza, vicino Dacca in Bangladesh, sede dei laboratori tessili di alcuni tra i più importanti marchi mondiali (da Gap, Lee, Timberland a Decathlon e Ikea), per far traboccare un vaso ormai stracolmo. Le immagini di quell’aprile 2013 e le vite spezzate di 1.189 operai gridavano vendetta contro il lavoro sommerso, iniquo e inquinante. Chouinard l’aveva capito, e scrisse alla community di Patagonia: «I consumatori acquistano il 60% in più di articoli di abbigliamento e li conservano per circa la metà del tempo rispetto a 15 anni fa (rapporto del 2016 di McKinsey & Company che ha esaminato la spesa dei consumatori e la produzione di capi di abbigliamento dal 2000 al 2014)».

A proposito di questo articolo

Questo articolo è tratto da  I Campioni della Sostenibilità 2023, terza edizione dello speciale di  Business People pubblicato sul numero di gennaio-febbraio . Per leggere la versione completa e approfondire altri temi della rivista, puoi scaricare il numero in versione digitale  cliccando qui

Aveva già fatto scalpore in questo senso la campagna pubblicitaria Don’t buy this jacket , una pagina sul New York Times  per il Black Friday  del 2011 che riportava le risorse naturali impiegate per la realizzazione di una giacca sportiva e invitava a non acquistare un nuovo capo, ma a riparare, riusare, riciclare quanto possibile. Opportunamente uscita all’inizio della stagione degli acquisti più compulsivi dell’anno. Eppure, ancora oggi un rapporto recente delle Nazioni Unite quantifica l’impatto della fashion industry sul sistema Terra nell’8-10% delle emissioni totali di CO2, nell’utilizzo di 79 miliardi di litri d’acqua all’anno, lo sverso di 190 mila tonnellate di microplastiche all’anno nei fiumi e negli oceani, per non parlare della produzione triplicata di poliestere destinato al cosiddetto fast fashion. Non ci sono soglie di sostenibilità da raggiungere, racconta la storia di Patagonia, ma solo da superare. Imparando via via dove si annidano le insidie. A partire da un materiale apparentemente innocente come il cotone. «Immaginavamo che il cotone fosse “puro” e “naturale”, visto che proviene da una pianta. Avevamo ragione solo sulla pianta»: dal 2020 proviene da coltivazioni biologiche al 100% (e da filiere etiche). E si può fare qualcosa anche per le stesse plastiche messe all’indice, quel poliestere che anche riciclato (l’obiettivo è l’abbandono di poliestere vergine entro il 2025) conserva le caratteristiche di leggerezza e impermeabilità necessarie all’aria aperta: la parola d’ordine è riuso, il più possibile e nel miglior modo possibile. Per il riuso responsabile Patagonia ha attivato il programma Wornwear , la seconda vita dei capi a brand, dismessi, riparati se necessario, e rimessi sul mercato a prezzi scontati, una volta, due e ancora finché c’è vita. Bastano nove mesi di vita in più per ogni singolo capo per ridurre del 20- 30% l’impatto in CO2, utilizzo di acqua e sprechi di risorse, e con gli oltre 415.174 articoli riparati e riutilizzati finora forse qualcosa si è fatto. Anche per contribuire a educare il consumatore finale ad acquistare meno, ma meglio, non in un’ottica di consumo ma di effettiva utilità.

Il programma Wornwear regala una seconda vita ai capi del brand dismessi, che se necessario vengono riparati e poi rimessi sul mercato a prezzi scontati

Per avere il maggior coinvolgimento possibile, conservare l’autorevolezza conquistata in questi anni, è stata di fondamentale importanza la condivisione dei singoli passi fatti per essere sempre più “ecologici”, in un senso che abbracci il concetto più ampio del diritto di tutti a vivere in modo dignitoso in un ambiente sano, salubre e bello. In questo senso, Patagonia sostiene la creazione di reti di movimenti e associazioni attiviste sempre più ramificate e influenti sulle politiche nazionali, attraverso il programma Action Works  che mette in contatto praticamente in tutto il mondo volontari e organizzazioni; e il progetto 1% For the Planet , che invita le aziende alla responsabilità attraverso la devoluzione dell’1% del fatturato lordo (anche in forma di promozione) che andrà a finanziare le attività di associazioni ambientaliste certificate, in linea con gli obiettivi. Fino a oggi sono stati raccolti già 435 milioni di dollari. In un mondo che ha scoperto il valore di mercato della sostenibilità dichiarata ma non necessariamente praticata, Chouinard e Patagonia hanno mostrato sempre una sola anima, una sola voce.

Cosa ne sarà dunque di Patagonia, senza Chouinard? Se non lui, nessun altro. Patagonia si emancipa, e da azienda da gestire diventa una sorta di entità con una personalità propria, che ha solo bisogno di interpreti. Di braccia che ne eseguano le direttive, di voci che ne esprimano i valori. Ecco perché Chouinard ha ceduto il 100% delle azioni con diritto di voto (il 2% del totale) a Patagonia Purpose Trust,  fondo creato ad hoc per perseguire gli scopi aziendali così come immaginati dal fondatore, e il resto delle azioni (senza diritto di voto) all’Holdfast Collective , che riceverà ogni anno i profitti non reinvestiti nel business aziendale, per finanziare progetti di sostenibilità ambientale e sociale.
Chiude Chouinard la sua lettera: «Invece di estrarre valore dalla natura e trasformarlo in profitti, useremo la prosperità generata da Patagonia per proteggere la vera fonte di ogni ricchezza. Stiamo facendo della Terra il nostro unico azionista. Sono seriamente intenzionato a salvare il pianeta ». La vetta più alta di tutte.

Credits Images: Uno scatto dello store Patagonia a Berlino Yvon Chouinard © Photo Campbell Brewer Il programma Wornwear regala una seconda vita ai capi del brand dismessi, che se necessario vengono riparati e poi rimessi sul mercato a prezzi scontati