Sostenibilità
Green Deal, dietro le quinte della sostenibilità UE
Cosa ispirerà norme, vincoli e iniziative del Green Deal europeo in questo 2023? E in che direzione andrà l’Italia, seconda economia verde del Vecchio Continente?
Non si può scrivere o parlare di Green Deal senza aver capito alcune parole e alcune regole. Gerarchia è la prima, e l’Europa lo sa bene quando parla di ambiente e, soprattutto, quando parla dell’obiettivo che la Commissione europea si è data nel voler diventare entro il 2050 il primo continente a impatto climatico zero. Un gigantesco progetto fatto a strati e sviluppato per tempi e scadenze.
Per raggiungere l’obiettivo avrà bisogno di investimenti sia pubblici che privati: i primi arrivano dal Next Generation Eu , per i secondi dovrà invece dire ai privati cosa è sostenibile e cosa no, cosa rispetta i parametri e cosa li nega. In gergo si chiama tassonomia, che è la disciplina in grado di classificare elementi a livello gerarchico: il Regolamento sulla tassonomia è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale Ue due anni e mezzo fa. Per fare un esempio: gas e nucleare sono sostenibili secondo quella gerarchia? Il dibattito bolle da mesi anche in Italia, intriso di mistificazioni belliche e finte crisi. L’ambiente dovrebbe essere una premessa, mai una toppa. Oltre alla questione energetica su elettricità e gas, il passaggio dovrà toccare molto altro, coi rifiuti e l’economia circolare in prima linea.
Il punto di vista di Monica Frassoni sul Green Deal europeo
Monica Frassoni ha concluso il mandato di vicepresidente dei Verdi europei a fine 2019, ma non è certo una persona a cui servono i titoli per dimostrarsi green. Ha continuato quindi a fare quello che faceva già prima, cioè la presidente della European Alliance to Save energy (EU-Ase), che si occupa di risparmio energetico, e di Eces, lo European Centre for Electoral Support. È arrivata a Bruxelles nel 1987, ha visto nascere e ha lavorato nel primo movimento Verde europeo, la politica non l’ha più lasciata. Ha il termometro attivo sull’Italia e sugli altri Paesi. «C’è in circolo un gran fermento normativo, forse come mai in passato. Nonostante io creda che le norme dovrebbero essere molto più ambiziose quando si parla di ambiente, in ogni modo si sta creando un quadro diverso dal passato grazie al Green Deal europeo, il quadro legislativo di finanziamento approvato nel 2019 e che si sta mettendo in atto superando nel frattempo le diverse emergenze degli ultimi tre anni, dal Covid alla guerra in Ucraina coi derivati rincari. Non si può già dire che queste spinte emergenziali siano state positive, perché le normative più importanti non sono ancora state approvate. Certo è che, se tu hai come obiettivo quello di rincorrere le forniture di gas, è evidente che cominci a pensare di mettere in piedi nuove strutture per il gas – rigassificatori e gasdotti – e, con la scusa che ti servono perché sei in emergenza, ti accorgi solo quando è tardi che rinnovabili ed efficienza energetica hanno, dal punto di vista dei tempi, la stessa lunghezza di realizzazione. A oggi, ma forse questo in Italia non arriva forte come dibattito, la Commissione Europea sta pensando di mollare alcune regole che si era data rispetto all’autorizzazione di aiuti di Stato e di fondi per nuove infrastrutture o per nuovi utilizzi di fondi europei per progetti legati al fossile, provando a riorientare tutto sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica».
Riduzione delle emissioni e dialogo politico tra Stati
Ma l’Europa è un concetto ben più largo del nostro dibattere solo tra italiani, si tratta di sintetizzare politiche nazionali che partono da obiettivi diversi e vanno verso scopi dissimili. I possibili vincoli dalla Ue in ottica Green Deal spaventano alcuni Stati. «Alla fine in Europa tutti devono mettersi d’accordo su un testo, si deve negoziare. Proprio in questo periodo si sta lavorando alla Direttiva sull’efficienza energetica in cui ci sono una serie di target di riduzione delle emissioni e di aumento delle rinnovabili che vanno rivisti al rialzo, non c’è scampo. Una cosa importante da rimarcare è che molte di queste norme del Green Deal esistevano già, solo che dal 2019 le stanno appunto rivedendo e riattualizzando per essere approvate e messe a regime. La difficoltà degli Stati membri nell’accettare questi innalzamenti dei parametri per l’obiettivo 2050 si sta rivelando in tutta la sua forza: concordano che serva farlo, ma i primi target di efficienza così serrati al 2030 li preoccupano sul piano costi e benefici. Mi spiego: la Ue ha verificato che aumentare per i Paesi il livello di efficienza energetica del loro sistema dal 9% al 13% entro il 2030 porterebbe un vantaggio indiscusso dei benefici rispetto ai costi, sia sul piano del pil che dell’efficientamento. I Paesi però ribattono che è troppo costoso adesso farlo in corsa, sommandolo alle emergenze; il Parlamento rimarca la sua posizione, i Paesi dibattono, la Commissione cerca un compromesso. Entro fine gennaio dovrebbe arrivare la decisione oppure il rinvio».
La vita italiana degli ecobonus
Poter dialogare con una “insider”, da tempo esperta di logiche, politiche e procedure della Ue, permette anche di intuire come vanno a finire le decisioni, e chi le prende, quando i Paesi membri fanno emergere tutte le loro distanze e differenze. È accaduto anche sui temi ambientali, dove ogni Paese ha puntato negli ultimi anni a una propria linea politica. «L’Italia ha scelto per lo più la via dei bonus, gli ecobonus. Da un lato ha funzionato ma con tante storture e controsensi, come gli incentivi per le caldaie a gas dato che dal 2025 in Europa non si potranno più usare. Sul piano dell’efficienza energetica, invece, Francia e Germania, ma anche l’Irlanda, hanno spinto molto bene e con più convinzione. C’è poi un aspetto culturale che non va dimenticato quando si parla di ambiente. In Italia non si è ancora integrato il problema del cambiamento climatico ed è molto grave. Si pensa che sia ancora un problema secondario o rinviabile. Le questioni effettive del risparmio energetico, intendo dire la volontà e il desiderio di mettere in campo certe politiche perché si crede realmente che siano urgenti e di valore, arrivano sempre dopo: dopo le prese di posizione politiche, dopo i temi del lavoro, dopo le vertenze territoriali. Il limite culturale è evidente anche nella scarsa sensibilità dei media che è figlia della scarsa sensibilità politica. L’ambientalismo in Italia è di contestazione, mai di convinzione, è lì che siamo perdenti ed è lì che si spiega perché è così difficile parlare o far capire la logica di un Green Deal in un Paese che non parla quel linguaggio culturale, che non lo incarna e che non cerca una mediazione politica a fin di bene comune».
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Mancanza di competenze e cultura sostenibile
Sul piano delle competenze e delle conoscenze di chi riveste il ruolo di decisore, la polemica è sempre aperta. Parlando di ambiente e sostenibilità, ci si chiede se esista una preparazione effettiva che porti a tradurre quei valori in politiche industriali ed economiche, prima ancora che sociali. Ci si chiede, di fondo, se sia spesso un limite di competenze a generare linee politiche inadeguate o illogiche. «Io credo che manchi la possibilità di ascoltare chi sa le cose realmente, chi ha voce in capitolo su questi temi non sa quasi mai di cosa parla. È una volontà ben precisa per favorire interessi economici e industriali molto forti: dove crei il vuoto, chi si sa muovere lo va a riempire. Non parlo banalmente di lobby, parlo di cultura che manca».
L’idrogeno può essere la risposta?
Tra gli ultimi trend del settore, per esempio, spicca quello dell’idrogeno. Verrebbe da dire che spicca l’idea più che la conoscenza: per la nuova Banca europea dell’idrogeno si investirebbero 3 miliardi di euro per dare vita a un mercato continentale. «La prima cosa da dire è che l’idrogeno non è una fonte energetica, ma un vettore. Ha bisogno di essere spinto, da solo è inerte. Il dibattito sull’idrogeno è nullo se non si risponde a monte a due domande: per cosa ne hai bisogno e come viene prodotto. A oggi il 95% dell’idrogeno viene prodotto da fonti fossili per poi creare energia, ma se lo produci dal fossile non serve a niente. Andrebbe prodotto con l’elettrolisi partendo dalle rinnovabili, per esempio in quei settori difficili da elettrificare per ovvie ragioni: i cementifici, le acciaierie, le grandi navi, in parte anche gli aerei. Allora sì che riesci a decarbonizzare. Il limite del dibattito pubblico è pensare di usare l’idrogeno per tutto, fino al riscaldamento di casa o per far partire un’automobile, ma vorrebbe dire fare un doppio passaggio, inutile. Oltre al fattore costo, ancora troppo alto. Ma i dibattiti ambientalisti sono sempre colpi di fulmine: prima per i biocarburanti, poi spariti, e adesso per l’idrogeno. Ridurre i consumi – la Ue dice addirittura del 60% – sarebbe la via maestra, anche perché le stesse rinnovabili potrebbero non bastare mai o non bastare più: non è impossibile farlo e lo dicono i dati. Con il caro bollette le famiglie italiane hanno già ridotto i consumi del 16% a fine 2022, le imprese quasi del 20%».
Il ruolo dell’Italia nel Green Deal europeo
Il discorso finale di Monica Frassoni punta sui settori cosiddetti hard to abate , quelli in cui è più difficile abbattere i gas serra. Di base acciaio, chimica, ceramica, carta, vetro, cementi, fonderie. Proviamo a individuare con lei qualcosa di buono in casa nostra. «Di buono c’è che l’Italia è la seconda green economy d’Europa, ci sono moltissime imprese o start up che continuano seriamente ad andare in quella direzione. Ma questo avviene quasi sempre al di là della politica, anzi contro la politica e contro la burocrazia negativa». Non c’è mai una soluzione assoluta. Non lo sarà nemmeno il Green Deal se non faremo passi di cultura prima che passi di azione e di precetti.