Connettiti con noi

Business

C’era una volta il centro media

Il digitale ha abbattuto i confini delle competenze nel mondo della pubblicità, e le concessionarie si stanno trasformando in consulenti di marketing per i grandi brand. In attesa del vero boom del mobile, quando oltre a comprare inserzioni, cominceranno anche a vendere servizi… La vision di Federico de Nardis, presidente e a.d. di Maxus Italia

architecture-alternativo

Di sicuro c’è soltanto una cosa: i centri media non saranno mai più gli stessi. E non solo perché la rivoluzione digitale ha frammentato mercati, pubblici e offerta mediatica, ma soprattutto perché diventa ogni giorno più evidente che questa trasformazione richiede un ripensamento dei modelli di business, e una riconfigurazione delle competenze e delle attività in portafoglio. Al di là della strategia, della pianificazione e del buying l’obiettivo delle concessionarie di nuova generazione è essere al fianco dei clienti con analisi dettagliate e dati certi. Dati certi per risultati di business certi, oramai non c’è alternativa. Ne è convinto Federico De Nardis, presidente e amministratore delegato di Maxus Italia, agenzia media con una forte specializzazione sul digitale, nata dall’unione di Maxus Milano con Mc2 (joint venture di Fiat e Wpp dal 2006) e ora parte del network Maxus. De Nardis, che ha fatto del project management, del performance marketing e degli analytics i suoi cavalli di battaglia, non ha nessun complesso a operare in un mercato, quello tricolore, in cui gli investimenti pubblicitari sul digitale sono una porzione risibile rispetto a quelli di piazze più evolute, come quelle del Nord Europa e degli Stati Uniti. «A parte che la situazione non è così terribile come la si descrive», dice, «ma tra tre, al massimo quattro anni tutto sarà diverso, anche in Italia. Finalmente questo mercato è tornato a essere dinamico, affascinante. E la concorrenza, d’ora in poi, sarà quotidiana: non ci sarà più un solo vincitore».

Ne è certo? Eppure voi lavorate in uno dei mercati europei meno reattivi rispetto alla rivoluzione digitale…Certo, se guardiamo i numeri a livello macro siamo indietro rispetto a Germania e Uk. Anche se bisogna precisare che gli investimenti reali sono superiori a quelli stimati da Nielsen, che fa fatica a rilevare le performance dell’area display e della parte search (secondo Nielsen l’on line, compresi gli introiti derivati dal search, peserebbe per circa l’8% sul totale del fatturato pubblicitario italiano, ndr). Secondo i dati in possesso di Group M, invece, gli investimenti reali sono superiori al 10%. Il divario tra il nostro mercato e quelli nordeuropei dipende innanzitutto dai media owner e dal tessuto aziendale italiano. Se prendiamo in considerazione le grandi aziende tricolori che lavorano sul piano internazionale, quasi sempre troveremo che il livello degli investimenti sul digitale è simile a quello delle controparti straniere. Mentre nelle piccole e medie imprese, il gap spesso dipende dall’età anagrafica degli imprenditori. E anche se intuitivamente molti di loro capiscono le potenzialità dei mezzi digitali, fanno fatica a gestire o accettare cose che non hanno mai provato.

Allora cosa bisogna fare per spingerli a pianificare sui new media?Facciamo molta attività di formazione e consulenza. La formazione è ormai indispensabile per aumentare nei clienti la comprensione di fenomeni che cambiano con una rapidità pazzesca. Fare consulenza vuol dire invece dedicare molto tempo all’analisi dei numeri e dei dati dei partner, con la consapevolezza che non ci sarà un ritorno nel breve termine. Solo così si possono sviluppare proposte che non siano fotocopie di quello che fanno gli altri e creare progetti che portino veri risultati di business. Nessuno ha una resistenza a priori sul digitale, ma noi dobbiamo mettere in evidenza che si possono ottenere risultati di business, altrimenti hanno ragione quelli che rimangono scettici.

Come si comunica l’efficacia di un investimento sul digitale?L’efficacia? È un tema molto interessante per tutti, ma non è un concetto facile da comunicare, anche perché dipende moltissimo dal settore merceologico di cui ci si occupa: la costruzione di un modello efficace è per esempio più facile sul largo consumo. Ormai c’è un’esperienza ventennale e il ritorno è molto più rapido sull’investimento pubblicitario rispetto ad altri settori, come quello dell’auto, dove i fattori che incidono sull’acquisto sono decisamente più complessi. Noi investiamo molto del nostro tempo e delle nostre risorse nello sviluppo di modelli che ci aiutino a fare consulenza basata su dati, su fatti concreti. Sono convinto che il mestiere del futuro, per noi centri media, avrà sempre più a che fare con questo, a prescindere dal fatto che ci si occupi di new media o meno. La nostra attività dovrà diventare misurabile, accountable, e anche la remunerazione dovrà essere legata a questo meccanismo. Prima c’erano le percentuali fisse, non legate al risultato che era onere del cliente. Oggi il risultato dipende anche da noi. Ed è un cambiamento di mentalità molto forte.

Il cambiamento di mentalità va attribuito anche all’impatto della crisi?La crisi c’è stata per tutti, è evidente. Certo, noi l’abbiamo vissuta da un posto meno pericoloso rispetto a molti dei nostri grandi competitor, perché avere grosse dimensioni, nel momento in cui la crisi colpisce duramente è la cosa peggiore: banalmente più si è grandi, più si perde. Noi siamo piccoli, e nel 2010 siamo riusciti a crescere del 10% arrivando a un billing di 350 milioni, con un fatturato di 12 milioni di euro. Però ci tengo a precisare che il billing non dice tutto di un centro media.

Quali sono gli altri indicatori della salute di un’agenzia?Fino a qualche anno fa si faceva solo strategia, pianificazione e acquisto. E il billing era a ragione l’indicatore più preciso per indicare la rilevanza di un’agenzia. Da quando il digitale ha cambiato le regole del gioco, non solo sull’on line ma anche sugli altri mezzi, la nostra capacità di fare consulenza e costruire servizi per i clienti ha cominciato a seguire regole diverse. Un’area su cui abbiamo investito qualche anno fa, per esempio, è quella della comunicazione direct o performance, sempre via Internet e mobile, naturalmente. In questo caso il margine è costruito sul guadagno che portiamo al cliente. Al momento due terzi del fatturato sono generati dalle classiche attività di strategia, pianificazione, buying, il resto è generato con strumenti e progetti diversi.

Pensate di sostituirvi alle agenzie pubblicitarie e alle web agency per la creazione di contenuti?Prima il centro media aveva un ruolo forte ma molto confinato, e non aveva la credibilità per poterne sostenere un altro. Oggi nel mondo digitale le barriere classiche tra le varie agenzie (creativa, di promozione, di pubbliche relazioni) sono molto più fragili. E ciascuno di questi operatori fa un mestiere diverso e un po’ più ampio rispetto a qualche anno fa. Non c’è un vincitore predefinito: di progetto in progetto ognuno gioca ad allargare il proprio perimetro e lo fa sulle idee e sulle strategie. Anche i clienti sono più aperti di ieri, un po’ perché sono stressati dal raggiungimento degli obiettivi aziendali, un po’ perché le proposte non arrivano più sempre dalla stessa parte. È un mercato più aperto, in cui la competizione è diventata quotidiana, e questa per noi è senz’altro un’opportunità.

Quali tecnologie e piattaforme vanno tenute d’occhio?Noi usiamo tutto e monitoriamo tutto, con risultati molto differenti a seconda delle categorie merceologiche e dei clienti. E comunque non possiamo fare a meno di constatare che il mobile è il grande assente nel media mix. Gli smartphone ormai costituiscono circa un terzo del parco italiano dei cellulari. Ma se guardiamo agli investimenti pubblicitari parliamo di noccioline, 15 milioni di euro, solo il 4% degli investimenti globali su Internet. La verità è che il telefono è uno strumento personale, di cui si è gelosi, non potrà mai essere trattato come la Tv e il Pc. Non si ha voglia di essere interrotti con la pubblicità tradizionale quando si è al telefono. Lo smartphone ha un altro scopo: deve facilitarmi mentre faccio altro, come per esempio e-commerce o acquisto di servizi. Sono queste le cose che servono. Poi, a chi mi domanda se c’entrano con la comunicazione, rispondo di no, naturalmente. Ma molti ancora non hanno capito che è verso il mondo dei servizi che dobbiamo andare… le aziende devono cominciare a porsi la domanda: che servizi posso offrire ai miei clienti?

Centri media che vendono servizi per conto dei clienti?Io credo che i centri media possano sfruttare la loro capacità di analisi e il numero enorme di dati che hanno a disposizione (che attualmente sono usati molto poco) per creare supporti di marketing per i loro clienti. Dobbiamo trovare un modo diverso di dialogare con i nostri partner, perché se fino a ieri ci occupavamo solo di pianificare strategie su mezzi a pagamento, chiedendo una percentuale sulle inserzioni, oggi dobbiamo fare i conti anche con i social media, che sono gratuiti. E non possiamo chiedere una percentuale su prezzi che non esistono!

Credits Images:

Federico De Nardis,classe 1961, tre figli. Torinese, ha frequentato a Milano il liceo Parini e si è laureato a Roma all’università la Sapienza in Lettere moderne. Dal 2006 è ceo di Maxus Italia, agenzia di cui è diventato anche presidente nel 2009